La giornata peggiore e la serata migliore di Trump (47/50)
Venerdì della settimana scorsa Donald Trump ha vissuto la sua giornata peggiore e la sua serata migliore da quando è presidente degli Stati Uniti: e le cose successe quel giorno condizioneranno molto – nel bene e nel male – le settimane e i mesi che seguiranno. Vediamo di capire cosa è successo.
Cominciamo dalla brutta notizia (per lui, almeno): l’incriminazione di Michael Flynn. Per capirne il significato, bisogna fare un passo indietro.
Chi aveva letto la newsletter di due settimane fa non è stato sorpreso da questa notizia.
Flynn è un ex generale che fu prima nominato dall’amministrazione Obama a capo della Defense Intelligence Agency e poi scaricato alla luce di un comportamento descritto come caotico, negativo, dilettantesco e irresponsabile. Una volta scaricato, Flynn anticipò la pensione e nel 2014 fondò insieme a suo figlio – un matto vero, ultracomplottista – una società di consulenza e lobbying: ottenne contratti dalla Russia per decine di migliaia di dollari, partecipò a una cena di gala a Mosca organizzata da Russia Today, la famosa tv del governo russo, sedendo proprio accanto a Vladimir Putin, e soprattutto firmò un grosso contratto con la Turchia perché facesse da lobbista negli Stati Uniti per il governo turco di Erdogan. Queste cose le sappiamo da relativamente poco: Flynn non si registrò mai come “foreign agent”, come sarebbe stato tenuto a fare, e nascose questi rapporti quando compilò le dichiarazioni sugli interessi economici e commerciali richieste a tutti i dipendenti della Casa Bianca. Flynn non dichiarò nemmeno i soldi ricevuti dal governo russo per partecipare alla cena di gala di Russia Today, come avrebbe dovuto fare.
Nel 2016, mentre questi contratti di consulenza erano ancora in vigore, Flynn cominciò a fare da consulente per la politica estera per l’allora candidato Donald Trump e il suo comitato elettorale; in breve tempo entrò nel giro più ristretto dei suoi collaboratori, composto da Jared Kushner, i suoi figli Donald Jr e Ivanka, il capo del comitato elettorale Paul Manafort, l’ex capo Corey Lewandowski e successivamente Steve Bannon e Kellyanne Conway. Fu preso in seria considerazione come possibile vice di Trump e alla convention di Cleveland parlò durante uno dei momenti più importanti – la prima serata – pronunciando uno dei discorsi più duri contro Hillary Clinton.
Quando il pubblico della convention cominciò a urlare “Lock her up! Lock her up!”, lui si unì al coro e disse: «Esatto! Esatto! Non c’è niente di male nel dirlo!». Poi aggiunse: «Se io avessi fatto un decimo di quello che ha fatto lei, oggi sarei in galera! Ritirati!».
Karma is a bitch.
Nessuno sapeva che Flynn fosse a libro paga del governo turco e del governo russo quando dopo la convention cominciò a ricevere i briefing riservati dell’FBI e della CIA insieme a Donald Trump, come da prassi per i candidati principali. Nessuno lo sapeva quando in piena campagna elettorale incontrò il ministro degli Esteri turco e discusse la possibilità di rapire il principale avversario politico di Erdogan, che vive negli Stati Uniti, e spedirlo in Turchia aggirando il processo di estradizione. Nessuno lo sapeva nemmeno quando il giorno delle elezioni scrisse un editoriale di sostegno al governo di Erdogan. Nessuno lo sapeva dopo l’elezione di Trump, quando Flynn sentì e incontrò l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Sergey Kislyak, e gli promise che le sanzioni decise da Obama sarebbero state stracciate, motivo per cui la Russia non avrebbe dovuto reagire (cosa che effettivamente accadde). Così come nessuno lo sapeva – fuori dalla Casa Bianca, almeno: il resto è tutto da vedere – quando Trump lo nominò a capo del National Security Council, il più importante gruppo di consulenti che assiste il presidente sulle materie di sicurezza nazionale.
L’FBI teneva sotto controllo Kislyak, quindi sapeva della telefonata. Quando però ne chiese conto a Flynn, tre giorni dopo la sua nomina, lui mentì. Nessuna telefonata. Lo stesso disse al vicepresidente, Mike Pence, che poi lo ripetè in tv quando trapelò la notizia della telefonata.
Sappiamo anche che poco prima di questo incontro Obama mise in guardia Trump sulla pessima reputazione di Flynn.
Mentire all’FBI è reato, e ti rende ricattabile. Se poi la persona che mente all’FBI sui suoi rapporti con la Russia è il National Security Advisor, è un problema che va oltre il semplice reato. L’FBI lo fece sapere al Dipartimento della Giustizia, che all’epoca era guidato temporaneamente da Sally Yates, una funzionaria nominata da Obama: la nomina di Jeff Sessions doveva ancora essere ratificata dal Senato. Yates andò informalmente da Don McGahn, il consulente legale di Trump appena diventato il consulente legale della Casa Bianca, e gli spiegò la situazione. Era il 26 gennaio.
Sappiamo che Flynn l’8 febbraio ammise finalmente di aver sentito Kislyak, ma negò di aver parlato con lui delle sanzioni; sappiamo che il 10 febbraio il suo portavoce disse che forse in effetti si era parlato anche di sanzioni; sappiamo che il 13 febbraio Flynn si dimise dal suo incarico, apparentemente su richiesta del presidente Trump. Passò 24 giorni da National Security Advisor, il mandato più breve della storia statunitense. Non sappiamo se McGahn a un certo punto tra il 26 gennaio e il 13 febbraio avvertì Trump di quello che gli aveva detto Yates, anche se sarebbe completamente assurdo se non l’avesse fatto: soprattutto mentre Flynn continuava a mentire e intanto essere esposto quotidianamente alle informazioni riservate più delicate in assoluto sulla sicurezza nazionale statunitense. Ma non lo sappiamo con certezza. Sappiamo un’altra cosa, molto importante: il 14 febbraio, il giorno dopo le dimissioni di Flynn, Trump convocò l’allora capo dell’FBI, James Comey, fece uscire tutti dalla stanza e poi gli chiese di «chiudere un occhio» su Flynn e «lasciare correre».
Oltre ad aver mentito all’FBI, Flynn ha violato il Logan Act, una legge che impedisce di fare la politica estera degli Stati Uniti per chi non fa parte del governo; le sue consulenze segrete per il governo turco e il governo russo, portate avanti mentre consigliava il presidente degli Stati Uniti, potrebbero essere anche perseguibili per alto tradimento. Flynn e suo figlio, suo socio in affari, rischiavano decenni di carcere. Eppure Flynn è stato incriminato solo per aver mentito all’FBI – il reato meno grave, per cui rischia al massimo cinque anni di prigione – e suo figlio per niente. Com’è possibile?
È possibile perché Flynn ha deciso di collaborare con le indagini.
Perché una persona collabori con un’indagine servono due cose non scontate. La prima, naturalmente, è la volontà di quella persona. Ma la seconda è la volontà del procuratore. Intendo dire che non è automatico che un’offerta di collaborazione venga accettata, nel sistema giudiziario statunitense, specie quando arriva da una persona che ha compiuto reati molto gravi: se il procuratore speciale Robert Mueller ha accettato è perché evidentemente Flynn si è dimostrato in grado di offrire informazioni, testimonianze, documenti e prove molto rilevanti per l’indagine. Un’altra cosa che bisogna tenere presente – e che ormai dovreste sapere, se seguite Da Costa a Costa da un po’ di tempo – è che queste inchieste partono dal basso per arrivare in alto, un passo dopo l’altro. Se Mueller ha accettato la proposta di Flynn, è perché Flynn può essergli utile per fare un passo avanti: cioè implicare qualcuno più in alto di lui, non più in basso. E c’erano poche persone più in alto di Flynn nel comitato Trump e durante quei 24 giorni alla Casa Bianca.
Bingo.
Sì, tutti pensano a Jared Kushner, ma nessuno sa cosa Flynn racconterà a Mueller; e comunque questa non è la sola questione aperta dall’incriminazione di Flynn. Vi ricordate cosa scrivevo poco fa, sul fatto che non sappiamo con certezza se McGahn avesse avvertito Trump del fatto che Flynn aveva mentito all’FBI? Questa settimana è arrivata una risposta a quella domanda, una risposta clamorosa, proprio da parte di Trump.