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Il “Partito della Nazione”, il nuovo bau-bau

Ogni momento politico ha il suo bau-bau: un astratto spauracchio, spesso definito da una formula ombrello non immediatissima sotto cui far ricadere tutto, da evocare con aria solenne e contrita durante dibattiti parlamentari, agitati talk show e conversazioni al bar. Nel 2012-2013 il bau-bau era il “neoliberismo selvaggio”, con l’ironica aggravante che in Italia il liberismo normale – figuriamoci quello selvaggio – nessuno lo ha mai visto nemmeno col binocolo. Quello della stagione 2014-2015 è il “Partito della Nazione”. E che cos’è? L’espressione ha una storia interessante.

A mia memoria, in tempi recenti il primo a usarla è stato Pierferdinando Casini quando nel 2009 voleva trasformare l’UdC in un nuovo partito. Se ne parlò anche in eventi pubblici, in un seminario a Todi, in un “laboratorio” a Chianciano: e lo stesso Casini usava l’espressione praticamente in ogni intervista. Fecero addirittura la tessera numero uno.

Non si tratterà di un restyling dell’Udc, che da sola non basta a rappresentare questa novità, ma di una nuova formazione politica aperta a laici e cattolici, credenti e non credenti. Le porte sono aperte a tutti, l’importante è che non sia un’adunata di reduci e generali senza esercito, ma un insieme di popolo. […] Il Partito della Nazione nasce per riconciliare l’Italia, perché questo è un Paese che si sta drammaticamente rompendo. Il Nord contro il Sud, la politica contro la società civile, i magistrati contro la politica, la destra contro la sinistra. Così non si può andare avanti. Intanto, questa estate, molte famiglie non hanno potuto fare le vacanze. Non sono state fortunate come noi. Ricostruiamo l’unità del Paese.

“Così non si può andare avanti” eppure così si andò avanti, anche perché alla fine del 2011 arrivò Mario Monti e cambiò tutto: l’UdC accantonò i suoi progetti di cambiamento concretizzandoli – in modo un po’ diverso – entrando in Scelta Civica prima delle elezioni del 2013. Nel frattempo l’espressione “Partito della Nazione” aveva cambiato completamente identità: la resuscitò nientemeno che Alfredo Reichlin, già parlamentare e intellettuale del PCI, sull’Unità. Siamo nel 2012, il segretario del PD è Pier Luigi Bersani e Reichlin si complimenta per il suo progetto di fare il “Partito della Nazione”.

La posta in gioco è molto alta, senza precedenti. Non è riducibile a un tradizionale scontro tra destra e sinistra all’interno di un assetto politico-istituzionale tranquillamente condiviso. Il ritorno in campo di Berlusconi non è una triste buffonata. […] Sento invece il peso (e l’orgoglio) delle responsabilità che a questo punto gravano sulle spalle del Pd. E chiedo scusa se penso per un momento ai sarcasmi di autorevoli amici per avere, anche in tanti articoli, sostenuto lo sforzo del Pd di costruirsi come un «partito della nazione» che andava oltre i vecchi confini della sinistra storica. Avevamo ragione.

Insomma, sono passati pochi mesi ed è cambiato tutto: ora da un pulpito molto distante da Casini e molto vicino all’ortodossia di sinistra si dice a Bersani “bravo, hai fatto il Partito della Nazione”. Poi si va a votare, Bersani dimostra che tanto bravo non era stato, Letta va addirittura al governo con Berlusconi e questo fa resuscitare lo storico bau-bau dell'”inciucio”, che trova una nuova breve popolarità. Di “Partito della Nazione” non si parla per un po’. Poi ne riscrive di nuovo Alfredo Reichlin, di nuovo sull’Unità: ma stavolta a proposito di Matteo Renzi, che ha preso una barca di voti alle Europee.

Non c’è nessuna esagerazione nel dire che il risultato del 25 maggio è un evento di grande portata che oltrepassa i limiti della cronaca politica. Esso fa molto riflettere su questo passaggio cruciale della vicenda italiana ed europea. […] A me è sembrato il voto per una forza che è apparsa agli occhi di tanti italiani (anche non di sinistra) come un argine, una garanzia. Contro che cosa? Ecco ciò che ha commosso e colpito un vecchio militante della sinistra come io sono. L’aver sentito che il Partito democratico veniva percepito come la garanzia che il Paese resti in piedi, che non si sfasci, che abbia la forza e la possibilità di cambiare se stesso cambiando il mondo. Un Paese che si europeizza ponendosi il grande compito di cambiare l’Europa. Si è trattato di una parola d’ordine molto alta e molto difficile che è gran merito di Renzi aver posto con tanta semplicità e chiarezza. […] Il suo straordinario successo personale non è separabile dal fatto che Renzi si è presentato come il segretario di quel «partito della nazione» di cui discutemmo a lungo ma senza successo anni fa con Pietro Scoppola al momento della fondazione del Pd.

Insomma, dice l’intellettuale del PCI: che figata il “partito della Nazione”. E che bravo Renzi – si legge fra le righe – a fare quello che non era riuscito a fare Bersani.

Passa qualche mese e arriva Renzi a mettere il carico: durante una direzione del PD cita l’espressione “Partito della Nazione” attribuendola proprio a Reichlin e spiegandola con l’allargamento del PD sia a destra che a sinistra.

Il PD deve essere un partito che si allarga, Reichlin lo ha chiamato il partito della nazione, deve contenere realtà diverse. Io spero che da Migliore con Led fino ad Andrea Romano che con quella parte di Scelta Civica che vuole stare a sinistra ci sia spazio di cittadinanza piena.

Alfredo Reichlin si risente un po’ e puntualizza su Repubblica:

Vedo che Matteo Renzi parlando del partito che ha in mente si richiama alla espressione “partito della nazione” che io cominciai a usare discutendo con Pietro Scoppola sul fondamento identitario da dare al PD, quando già si intravedeva la dimensione storica della crisi italiana. Non mi pare però che pensiamo le stesse cose e vorrei chiarirlo. Io parto dalla necessità che sento, acutissima, di dare al Paese uno strumento politico forte capace di arrestare la decadenza non solo della sua economia ma del suo organismo statale, della sua tenuta sociale, della sua identità civile e morale. Parto, insomma, dalla crisi della nazione come maggiore danno per tutti ma in specie delle classi lavoratrici. E penso, quindi, che sta qui la funzione “nazionale” del Pd, il suo essere l’opposto di un partito “pigliatutto” e delle avventure personali che da anni ci affliggono.

La distinzione non è immediatissima – Renzi pensa di fare quello che dice Reichlin, probabilmente – ma da quel momento, più o meno, l’espressione diventa il bau-bau: la formula con cui si descrive un progetto post-democristiano e consociativista con cui si vorrebbe creare un unico partitone centrista, inamovibile dal governo, con dentro tutto e il contrario di tutto. Chiamiamo le cose col loro nome: la nuova Democrazia Cristiana (paura!). «La mutazione genetica del PD nell’era del renzismo dilagante», scrive il Fatto. «Nelle democrazie mature non vi può essere un Partito della Nazione», dice Romano Prodi (Prodi quello vero, non un omonimo di quello che si è inventato l’Ulivo e le coalizioni con dentro Mastella, Turigliatto, Bertinotti e Dini). «Verdini pronto a lasciare Fi per il Partito della Nazione», titola un ardito retroscena della Stampa. Roberto Speranza dice accigliato che «sarebbe un errore cadere in un indistinto Partito della Nazione». «Non mi piace vincere con il Partito della Nazione», dice Rosy Bindi, «per prendere tutto ripropone il consociativismo e le larghe intese degli interessi al proprio interno».

Quindi Renzi è stato smascherato: vuole fare la nuova DC e restare al potere in eterno con un partito – il Partito della Nazione – che ha dentro di tutto. Questo è il momento in cui il bau-bau entra in conflitto con la realtà: se Renzi vuole fare un partitone indistinto che perpetua le larghe intese all’infinito, perché tiene così tanto – al punto da «minacciare la democrazia»! – al fatto che l’Italicum venga approvato? E perché gli autoproclamatisi avversari del consociativismo difendono l’unica legge elettorale, il Porcellum modificato dalla Corte Costituzionale, che è semplicemente perfetta per rifare la Democrazia Cristiana? A meno di risultati elettorali clamorosi, un proporzionale senza premio di maggioranza – il sistema elettorale con cui ha prosperato la vera DC, d’altra parte – renderebbe eternamente inevitabili le larghe intese. E parliamo delle larghe intese quelle vere: quelle con Berlusconi, quelle che hanno fatto Bersani e Letta nel 2013. A meno di non doverle fare con Salvini o con Grillo: uno scenario da incubo che l’attuale legge renderebbe realistico. L’Italicum potrà avere mille difetti, ma di una cosa non può essere accusato: col ballottaggio e il premio di maggioranza alla lista più votata impedisce la formazione di un unico partitone centrale e favorisce il bipolarismo. È un fatto. Lo sanno anche i suoi avversari, molti dei quali infatti nei giorni pari accusano Renzi di voler fare il “Partito della Nazione” e nei giorni dispari di voler imporre il bipartitismo a un panorama politico frastagliato e tripolare.

Il “Partito della Nazione”, per come lo ha descritto Reichlin e per come fin qui lo sta facendo Renzi, è semplicemente quello che in un’altra era politica avremmo definito “un partito a vocazione maggioritaria”: un’idea che peraltro, in quell’epoca remota, era sostenuta anche da Bersani, da D’Alema, da Fassina – rileggere il Fassina del 2008 è un’esperienza mistica – e compagnia bella. Non che ci credessero davvero, certo: è che a quel giro toccava stare con Veltroni. La cosa interessante però è che al giro successivo fare il PD è toccato a loro: e hanno fatto effettivamente il partito piccolo, tradizionale, identitario, vicino ai sindacati ma pronto ad allearsi con Monti, che non parla a tutto il paese ma solo a una parte. È finita che quella parte ha votato altrove, il PD ha ottenuto il peggior risultato della sua storia, ha mandato al governo Berlusconi e per poco non ci mandava Grillo. L’ultima frase non è un’iperbole: ha mandato al governo Berlusconi e per poco non ci mandava Grillo. Ripensarci prima di pontificare, ogni tanto.