Le risposte giuste sui soldi alla politica
Io non so se è vero che qualcuno stia preparando o abbia preparato uno “studio” – o un “dossier”, e la scelta del termine rivela già molto – sul numero di dipendenti che ha il Partito Democratico, su come spende i suoi soldi e su eventuali sprechi. Considerato che la notizia arriva da un retroscena giornalistico, e considerato quello che sono i retroscena giornalistici in Italia, tenderei a pensare che non sia vero. Ma erano prevedibili le reazioni agitate e irritate che sta suscitando in giro, perché il clima barbaro delle primarie del centrosinistra risale ad appena l’altroieri – sbaglia chi se lo dimentica – e perché il tema di cosa fare col finanziamento pubblico ai partiti esiste ed è molto attuale.
Io trovo ci siano diversi buoni argomenti a favore del mantenimento di una qualche forma di finanziamento pubblico ai partiti, in teoria. Trovo però che nella pratica, in Italia, questi argomenti siano stati smentiti dai fatti innumerevoli volte: e quindi penso che chi vuole difendere il finanziamento pubblico ai partiti, e chi lo fa con più vigore, dovrebbe dare risposte più serie o trovarne delle nuove. Per esempio, in Italia dire che il finanziamento pubblico serve a evitare che la politica possa essere corrotta è una barzelletta, così come lo è – conclamatamente – dire che serva a evitare che i ricchi possano imporsi in politica sulla base del loro potere economico. Sappiamo con certezza scientifica che in Italia il finanziamento pubblico ai partiti non ha impedito l’ascesa verticale di un uomo politico ricchissimo, e siamo stati testimoni di un numero considerevole di casi di abusi e di corruzione di/tra politici nazionali e locali. A meno che l’idea non sia che ce ne vogliano ancora di più, di soldi ai partiti, ma la scarterei.
Anche sorvolando – e non dovremmo – sul clamoroso aggiramento della volontà popolare espressa con un referendum, l’altro problema che dovrebbe porsi chi difende il finanziamento pubblico ai partiti è la trasparenza della gestione di quei soldi. Se oggi un retroscena giornalistico può parlare con vaghezza del numero degli assistenti di Rosy Bindi e dello stipendio dei membri di segreteria, è perché quelle informazioni sul Partito Democratico – e su tutti gli altri partiti italiani – non sono state diffuse prima. Ci sono delle buoni ragioni per pensare che dovrebbero esserlo, visto che si tratta di soldi ricevuti dallo Stato. Come sono spesi? Che mansioni hanno i quasi 200 dipendenti del PD? Come saranno spesi i 48 milioni di euro di “rimborsi” elettorali che il PD riceverà nella prossima legislatura, se la campagna elettorale ne è costata solo 6,5? E i soldi versati al partito dai parlamentari prima e dopo le elezioni?
Ricapitolando: bisogna spiegare perché oggi, in Italia, ha senso tenere in piedi il finanziamento pubblico ai partiti; bisogna spiegare se e perché serve che siano così tanti soldi; bisogna spiegare estesamente come sono spesi questi soldi. Chi difende il principio ma non ha risposte efficaci a queste domande – non è detto che ci siano, soprattutto alla prima – di fatto trasforma ogni sua dichiarazione in un argomento a favore dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, spesso senza rendersene conto. E forse dovrebbe iniziare a chiedersi se, proprio a tutela del principio che difende, ormai travolto dalla melma insieme a ogni sua eventuale qualità positiva, non valga la pena ricominciare da capo: cancellare il finanziamento pubblico ai partiti, darci tutti una regolata per un po’ e poi semmai ricominciare. In un altro modo.