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L’articolo 18, parlandone seriamente

Per quanto le parti in causa insistano sul contrario, questa specie di dibattito sull’articolo 18 è effettivamente un dibattito su un totem. L’irruenza di chi vuole cambiarlo – non tanto il governo, cauto e moderato per statuto, quanto l’ex governo – non tiene conto della cosa che dice spesso e giustamente Bersani, cioè che si tratta sempre di una norma che già oggi non si applica al 95 per cento delle aziende italiane. Chi vuole difenderlo così com’è – i sindacati e fra tutti la CGIL – non nota incredibilmente alcuna contraddizione tra il definirlo un Baluardo a difesa della Dignità dei Lavoratori (una «norma di civiltà», dice Susanna Camusso) e il contemporaneo non fare niente di niente per estendere questa «norma di civiltà» ai lavoratori che ne sono privi. Un non-fare-niente-di-niente esplicito, voluto, al punto che quando in Italia si tenne un referendum per estendere le tutele dell’articolo 18 a tutti i lavoratori, l’allora segretario della CGIL Sergio Cofferati, per giunta reduce dalla storica manifestazione del 23 marzo, fece propaganda per l’astensione. Perché? La «civiltà» scatta solo se hai 14 colleghi? Perché si tratta di un totem: finché rimane com’è adesso si può sostenere (forse) mentre estenderlo a tutti renderebbe obbligatoria una complessiva revisione del mercato del lavoro. Guai.

Si spiega così anche quanto detto a questo proposito da Susanna Camusso nell’ormai famosa intervista di ieri al Corriere della Sera. Di quell’intervista le cose importanti non sono tanto le posizioni politiche, che come abbiamo detto in parte prescindono dalla realtà e dai suoi cambiamenti, quanto un’aggressività verbale e una personalizzazione dello scontro che hanno pochi precedenti. Ci sono diversi passaggi sballati e sgradevoli, e poi c’è la ciliegina sulla torta, quando il segretario della CGIL considera sorprendente e grave che la riforma delle pensioni che non le piace sia stata «fatta da una donna» e non da un uomo – cosa che invece, lascia intendere, sarebbe stata naturale. Un’osservazione da partito di destra degli anni Sessanta, o da Camillo Langone.

Dicevamo dell’articolo 18, però. Tutti sanno che milioni di persone lavorano senza ferie, malattia, maternità, diritti e garanzie di alcun tipo, accesso al credito, stabilità, tredicesima, eccetera, spesso con una lettera di dimissioni firmata in bianco nel cassetto del capo, hai visto mai: come schiavi, insomma. Sono la grandissima maggioranza di chi entra nel mondo del lavoro e quindi diventano di più ogni giorno che passa, inesorabilmente. Tutti sanno che l’unica via per spezzare questa situazione – l’unica – è abbattere il dualismo del mercato del lavoro, introducendo un diritto del lavoro unico per tutti. Ferie, malattia, maternità, accesso al credito da subito, per tutti. Tutele certe e crescenti nel tempo. Continuità del reddito tra un lavoro e l’altro. Ci sono varie proposte in campo che vanno in questa direzione, non solo quella di Pietro Ichino. Vediamo cosa metterci dentro, i tempi e le regole. Partiamo dall’estendere il regime solo ai nuovi contratti, così da non toccare i lavoratori che hanno il massimo delle tutele, che tanto diventano sempre di meno comunque. Raddoppiamo le sanzioni contro gli odiosi licenziamenti per discriminazione, che comunque resteranno sempre e comunque sanzionabili dai tribunali del lavoro, come oggi. Ma discutiamone: non ci sono altre vie. Un sindacato serio dovrebbe pretendere questa discussione, invece che evitarla, e dovrebbe mettersene al centro per condizionarla. Anche Susanna Camusso dice di voler superare il dualismo del mercato del lavoro. Così.

«Vogliamo superare il dualismo? Lancio una sfida: facciamo costare il lavoro precario di più di quello a tempo indeterminato e scommettiamo che nessuno più dirà che il problema è l’articolo 18?»

E qui cadono le braccia. Tutti sanno benissimo, Camusso compresa, che i lavoratori precari non hanno alcun potere contrattuale, zero, niente di niente, mai. Aumentare le tasse sul lavoro precario vuol dire quindi ridurre gli stipendi dei lavoratori precari. Non è una tesi, non è un’opinione: è – già – successo. Lo sappiamo per certo, lo raccontava qualche tempo fa Marco Simoni.

Il governo Prodi nel 2008 decise di cambiare una riforma precedente e consentire ad alcune coorti di persone attorno ai 60 anni di anticipare l’andata in pensione. Siccome era una cosa che costava molto si decise di trovare i soldi tassando di più il lavoro precario, sbandierandolo come misura appunto che avvicinava il costo del lavoro precario a quello del lavoro normale. L’effetto fu un diretto trasferimento di reddito dai precari ai pensionati. Infatti, dal 2008 al 2010 il salario medio dei precari neo-laureati è passato da circa 1100 euro al mese a circa 850 euro al mese. Il meccanismo è semplice. Poniamo che un ente pubblico possa assumere un bel precario per sei mesi. Questo precario guadagnerebbe 1000 euro al mese al netto delle tasse. Se le tasse aumentano lo stipendio cala perché, dato che il lavoratore è sotto ricatto, gli verranno semplicemente offerti 900 euro anziché 1000, perché bisogna pagare più tasse. (grassetto mio)

La permanenza del dualismo avrà sempre come conseguenza l’apartheid. Il capo del più grande sindacato italiano lo sa. E quindi, dato che Susanna Camusso non vuole metodicamente distruggere le vite dei lavoratori precari, la sua risposta è semplicemente una sciocchezza buttata lì, perché la difesa del totem richiede il suo tanto al chilo di servirebbe-ben-altro. Sulla pelle dei lavoratori precari, che non hanno iscritti e a cui soltanto una cosa oggi risulta più lontana e ignota dell’articolo 18: il sindacato.

(online anche sul blog dei Mille)