Questo sito contribuisce alla audience di IlPost

Qualcosa si muove

Un po’ di notizie dalle primarie repubblicane. Cominciamo con Jon Huntsman, che come avrete capito è il candidato secondo me più interessante tra quelli che si contendono la nomination, nonché il più temibile per Obama. L’ex ambasciatore statunitense in Cina ha fatto un bel giro in New Hampshire, uno degli stati più importanti delle primarie, specie per chi come lui parte sfavorito. Joshua Green sull’Atlantic racconta che è andato molto bene: non è stato aggredito per le sue posizioni più liberali (sui diritti degli omosessuali e sull’ambiente, per esempio) e quando è stato interpellato su questi temi si è difeso pacatamente e senza fare marcia indietro; si è posizionato a destra di altri candidati su altre questioni, collocandosi a pieno dentro il mainstream del partito; si è mostrato calmo, riflessivo, poco interessato allo scontro e perfettamente a suo agio negli incontri con gli elettori.

Huntsman è ancora molto indietro, comunque, dovendo ancora annunciare ufficialmente la sua candidatura. Quelli più avanti in questo momento sono Romney e Pawlenty. Quest’ultimo sembra fare ancora abbastanza fatica ad attirare attenzione e sta lavorando a fari spenti. La campagna di Romney appare organizzativamente ed economicamente più solida, lui è messo meglio nei sondaggi ma ha già cominciato il consueto ridicolo flip-flop già apprezzato in decine di altre occasioni. “Se solo credesse in qualcosa, sarebbe una forza”, scrisse di lui l’Economist nel 2008, “ma purtroppo le sue idee politiche sembrano cambiare secondo il pubblico che si trova di fronte”.

Intanto il partito repubblicano è impegnato a fare i conti con la sua stessa proposta per il budget. L’ha firmata il deputato Paul Ryan e porta il concetto dei tagli selvaggi alla spesa pubblica oltre una linea che probabilmente non convince nemmeno molti elettori repubblicani, figuriamoci gli indipendenti. È una storia che sintetizza il problema dei repubblicani di cui abbiamo parlato più volte: la proposta di Ryan allontana dal suo partito la grande maggioranza degli elettori – si pensi alla recente sconfitta nell’elezione suppletiva dal 26simo collegio di New York, storicamente repubblicano – e ne compromette l’affidabilità al Congresso (quando la proposta Ryan è stata sottoposta al Senato, è stata sonoramente bocciata e cinque repubblicani hanno votato con i democratici). Se però si prova a criticarla si viene praticamente linciati dai tea party e dalla base del partito, ed è quello che è accaduto una decina di giorni fa a Newt Gingrich – non esattamente il tipo di candidato che si direbbe avere bisogno di copertura a destra.

Le cose più interessanti questa settimana riguardano Sarah Palin. Che ha rimescolato il suo staff, che ha un documentario su di lei pronto a uscire in Iowa e che sembra guardare con interesse alla possibilità di una candidatura. Può anche essere la solita strategia, eh: da mesi ogni volta che Sarah Palin finisce fuori dalle attenzioni dei media questa la attira di nuovo facendo una mossa, una volta è il nuovo sito Internet, un’altra è un video o un’intervista. Stavolta le cose sembrano un po’ più serie, visto che l’ex governatrice dell’Alaska sta per partire con un giro degli Stati Uniti in pullman: un modo per muovere le acque e vedere come risponde l’elettorato e anche un modo per prendere tempo in modo produttivo.

Anche perché un importante fattore di cui Palin terrà probabilmente conto, oltre ai suoi numeri: quelli di Obama. Il rimbalzo verso l’alto dovuto all’uccisione di bin Laden era scomparso dieci giorni fa, riportando la popolarità del presidente sui livelli precedenti alla morte del leader di al-Qaida. Poi però i numeri sono tornati a salire: oggi Obama è al punto più alto della sua popolarità negli ultimi sedici mesi e senza che ci sia stato un evento della portata della morte di bin Laden. Questo probabilmente è un aumento vero, solido. Le sue ragioni possono essere spiegate dal dato della Florida, uno Stato particolarmente importante alle presidenziali: lo scorso aprile tra gli elettori indipendenti solo il 39 per cento vedeva positivamente il presidente, mentre il 55 per cento lo vedeva negativamente. Oggi i ben disposti tra gli elettori indipendenti sono il 47 per cento. Pare che i repubblicani li stiano facendo scappare.