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Come saranno le presidenziali del 2012 (forse)

Ieri Jon Huntsman – ambasciatore degli Stati Uniti in Cina, ex governatore dello Utah – ha fondato un PAC, sigla che sta Political Action Committee, cioè un comitato che serve per raccogliere fondi: non è ancora una candidatura alle primarie repubblicane ma è un primo passo. Il suo incarico da ambasciatore si conclude domenica: dal giorno dopo Huntsman inizierà a sondare il terreno in modo più approfondito, andrà soprattutto in Iowa, New Hampshire e South Carolina, incontrerà potenziali finanziatori e sostenitori e poi, prima dell’estate, prenderà una decisione definitiva.

L’ho scritto più volte: Huntsman è un repubblicano molto in gamba, competente, moderato e pragmatico. È sicuramente il più pericoloso sfidante alle presidenziali per Obama ma è anche quello che avrà più difficoltà di chiunque altro a vincere le primarie repubblicane. Proprio perché è quanto di più lontano si possa immaginare dai tea party, proprio perché è moderato e pragmatico: e perché con Obama ha lavorato bene in questi due anni (un altro che si trova in una situazione simile è Mitch Daniels, che però fa il governatore dell’Indiana e non ha fatto parte dell’amministrazione Obama).

Obama, che sa quanto Huntsman possa essere pericoloso alle elezioni presidenziali, prima lo ha nominato ambasciatore degli Stati Uniti in Cina, togliendolo di mezzo, e ora non fa altro che riempirlo di complimenti, personalmente o attraverso il suo staff, nel tentativo di danneggiarlo alle primarie repubblicane. È quello che faranno molti democratici, se Huntsman si candiderà: oggi persino Jimmy Carter ha detto che Huntsman gli piace. Il repubblicano preferito dai democratici può fare lo sfidante di Obama? Probabilmente no. Dovesse riuscirci, però, tutti questi attestati di stima potrebbero rivelarsi delle armi a doppio taglio: come fai a parlare male di lui, poi, alle presidenziali? Su cosa punta Huntsman lo avevo scritto lo scorso febbraio.

È la scommessa sull’apertura di nuovo ciclo politico americano, che abbandoni i toni alti ed estremi degli ultimi tre cicli elettorali, ed è anche la scommessa su una campagna elettorale centrata quasi esclusivamente sull’economia, abbastanza da mettere in secondo piano le ragioni per Huntsman sarebbe sgradito alla base dell’elettorato repubblicano.

Credo che sia ancora troppo presto per capire se questa scommessa si può vincere o no. Sappiamo però che a sei mesi dalle elezioni di metà mandato l’influenza dei tea party si è molto sgonfiata (non sono mai stati così impopolari, dice un sondaggio di qualche giorno fa). Le ragioni di questa svolta sono tante. Da gennaio ogni legge, per diventare tale, deve essere sottoscritta sia dai repubblicani che dai democratici e da Obama, e quindi è più complicato fare il muro contro muro. La strage di Tucson ha spinto i commentatori anti-Obama più esagitati a darsi una calmata. In questo momento per l’elettorato americano l’economia pesa più di qualsiasi altro tema-spauracchio, dal terrorismo all’immigrazione, dall’aborto alle armi. Inoltre, alla fine della fiera quattro anni di presidenza Obama non possono che indebolire le diffidenze pseudorazziste verso il-candidato-nero-che-di-secondo-nome-fa-Hussein. È possibile che da qui in poi la tendenza venga accentuata anche dalla morte di Bin Laden, che rende impossibile accusare Obama di essere una specie di musulmano in incognito: non avrà nessuna conseguenza alle elezioni presidenziali, ma può averne alle primarie repubblicane. Insomma, per i repubblicani più estremisti il periodo d’oro sembra essere finito.

In modo diverso, il fenomeno si verificherà anche dall’altra parte. La campagna dei democratici del 2008 era trainata dall’arrivo della crisi economica, dal risentimento verso l’amministrazione Bush e dalla portata storica di una eventuale vittoria di Obama, fattori che hanno unito gli indipendenti centristi, i moderati, i liberal e la fascia più di sinistra dell’opinione pubblica. La prossima campagna dovrà essere per forza più concreta, avrà meno spinta idealistica e dovrà fare i conti anche con i cosiddetti “delusi di sinistra”, la cui partecipazione al voto presidenziale non va data per scontata, specie se i repubblicani non dovessero candidare un impresentabile. Fare previsioni adesso è un azzardo, tutto può ancora cambiare. Ma mi sembra plausibile un progressivo accentuarsi di questa normalizzazione della politica americana, almeno per questo ciclo elettorale. È sicuramente una buona cosa per gli Stati Uniti, ma è una buona cosa che potrebbe mettere in salita la strada di Barack Obama verso la rielezione.