Questo sito contribuisce alla audience di IlPost

Fare l’Italia da un’altra parte

L’Unità ha organizzato per domani un incontro con un bel gruppo di blogger per parlare dell’Italia e del suo compleanno; mi hanno invitato, parteciperò volentieri ma non so cosa andrò a dire. Ci penso da un po’ e vi metto a parte – in modo disordinato, perdonatemi – delle cose che mi girano in testa.

I compleanni degli Stati mi appassionano poco. La frase “orgogliosi di essere italiani” non mi dice più di quanto mi dica la frase “orgogliosi di avere gli occhi neri”: ammesso che ci sia qualcosa di cui essere orgogliosi, io non ne ho alcun merito. Dall’altra parte, però, capisco il senso pedagogico di approfittare di una simile ricorrenza per ricordarci di persone importanti che hanno fatto un pezzo di Storia del posto in cui viviamo: di parlare di fatti del passato che possono insegnarci qualcosa per il presente e per il futuro.

Quindi, oltre ai patrioti del passato, ho pensato alle persone che oggi potremmo definire Grandi Italiani, e mi sono reso conto che la maggior parte di loro deve la sua grandezza alla propria battaglia contro l’Italia, se mi è consentita questa brutale semplificazione: quelli che l’Italia la vorrebbero cambiare del tutto. Quelli che resistono ai piccoli quotidiani ricatti della criminalità organizzata, quelli che si fanno in quattro nel volontariato, quelli che denunciano le ingiustizie, quelli che si impegnano a fare bene le cose che fanno, sono persone che a loro modo remano controcorrente (e c’è molto di tragico e niente di cui andar fieri in questo essere minoranza).

Questo mi porta a una prima conclusione: al contrario di quel che diceva Massimo D’Azeglio, oggi l’urgenza non è fare gli italiani ma fare l’Italia, renderla un posto in cui poter vivere comodi. Ma da qui sono arrivato a un altro pensiero: bisogna davvero? Perché dovremmo fare l’Italia? Non è una domanda retorica: qual è la ragione per cui, nel 2011, col resto del mondo a un tiro di schioppo, bisognerebbe restare in un posto in cui siamo nati per puro caso e impiegare trent’anni a combattere – e perdere, magari – battaglie che altrove sono già state vinte e date per scontate da tutti?