Il giornalismo collettivo
Nell’ambito del giornalismo, il mestiere del giornalista di agenzia è affascinante e particolare. È fatto poco di scrittura, ed è strano perché la grandissima parte delle persone che vogliono fare questo mestiere pensano in primo luogo alla scrittura, al ritmo di un racconto, alla firma in calce al pezzo, all’inchiesta. È fatto invece molto di rapidità, di intuito, di sintesi, di fiuto. In alcuni casi, molto comuni, può essere noioso, ripetitivo e persino alienante. In altri però è esaltante e imprevedibile.
In uno dei suoi tanti ottimi libri sul giornalismo, David Randall racconta un aneddoto particolare legato ai giornalisti di agenzia, a quelli che lavoravano quando non esistevano telefoni cellulari né tantomeno connessioni internet. Non ho il libro con me e quindi non ho potuto verificare di ricordare tutto per bene, ma insomma la storia è quella di due giornalisti di agenzia – uno della Reuters, uno dell’Associated Press – che si trovavano a Dallas il 22 settembre del 1963, quando fu ucciso Kennedy. Non appena si resero conto di quello che era accaduto, si misero in cerca di un telefono per potersi mettere in contatto con la loro redazione, e potete immaginare con quale ansia si infilarono in un bar per impossessarsi di un telefono pubblico. Uno riuscì ad agguantare la cornetta per primo. Telefonò in redazione, dettò il lancio ai dimafonisti, chiuse il telefono e ne strappò i cavi, per impedire al suo collega di fare lo stesso.
L’episodio è estremo e persino divertente, e racconta bene dei livelli a cui può arrivare la rivalità tra i giornalisti. Anche oggi, infatti, è normale che un giornalista che ha una notizia in esclusiva la nasconda ai suoi rivali, e che le testate facciano a gara per dare notizie che altri non hanno, e per darle meglio. Quando il meccanismo funziona, si tratta di uno dei più sani e fruttuosi esempi di concorrenza, che accresce la qualità generale di una merce piuttosto importante – l’informazione – a vantaggio dei consumatori finali – i cittadini – e di chi fa meglio il suo mestiere tra i giornalisti.
Quando funziona, appunto. Perché i giornalisti sono anche una solida e influente corporazione – non solo in teoria ma in solido, vedi alla voce “ordine dei giornalisti” – e in Italia il meccanismo è stato tale da aver favorito negli anni la diffusione di una mentalità distortamente egualitarista e appunto corporativa, volta a favorire la sopravvivenza della professione in blocco piuttosto che migliorarla facendo emergere talenti e capacità.
Vi racconto tutto questo per via di una cosa che ho visto accadere durante lo scorso weekend a Firenze, dove ero per conto del giornale per cui lavoro: è una cosa che succede sempre, che mi era stata raccontata decine di volte da persone diverse, e che stavolta ho visto con i miei occhi. Al termine dei lavori di sabato mattina dell’evento dei cosiddetti rottamatori, Matteo Renzi e Pippo Civati sono andati in sala stampa e hanno fatto due chiacchiere con i giornalisti. Domande, risposte, registratori, gente che scrive rapidissimamente sui bloc notes. Quando i due se ne vanno, quando il giornalista di agenzia dovrebbe mettere in ordine le cose che ha scritto, prendere il telefono e dettarle ai dimafonisti nel minor tempo possibile, perché questi li passino al servizio politico e li trasformino in lanci, avviene questa scena qui.
(foto rimossa)
Invece che affrettarsi a telefonare alla propria agenzia, impegnandosi a dare le notizie prima degli altri e meglio degli altri, i giornalisti di agenzia – ognuno per la sua agenzia, tutte teoricamente tra loro concorrenti – formano un capannello. Confrontano le cose che hanno scritto, così se qualcuno si è perso un passaggio lo può inserire. Se qualcuno è arrivato in ritardo e si è perso l’inizio della chiacchierata, lo aspettano e gli passano le dichiarazioni. Si mettono d’accordo sui titoli da fare. Poi, quando sono tutti pronti, telefonano tutti insieme. Dettano la stessa cosa, insomma, e nello stesso momento. Non è un caso: è la prassi. Ci sono delle eccezioni, ovviamente, ma questa è purtroppo la regola.
L’intento è protettivo, di se stessi e dei loro colleghi: in questo modo nessuno sarà mai sgridato dal proprio caposervizio per aver bucato una dichiarazione, per averla riportata male o per aver fatto tardi rispetto a un’altra agenzia. Nessuno sarà migliore degli altri – eppure ci sarà uno più bravo degli altri, lì in mezzo – ma almeno nessuno sarà il peggiore. È la più classica delle omologazioni al ribasso, dell’annullamento della qualità e del merito in nome della solidarietà corporativa, dell’umiliazione di una professione e della sua missione in nome del tengo-famiglia. È un esempio di deliberata e malintesa volontà di fare ciò che conviene in luogo di quello che si sa essere giusto. Ed è un peccato perché almeno in questo caso, se si ha gusto per le cose che si fanno, talento e disponibilità al sacrificio, fare quello che è giusto non è solo giusto: conviene.