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Bullismo politico

Il colmo della giornata di ieri è che Gianfranco Fini non voleva la rissa. Il presidente della camera è salito sul podio e ha detto le sue cose – tutte sacrosante – nel modo più difensivo possibile, tra un complimento al governo e una carezza a Tremonti, con lo scopo preciso di marcare le sue differenze ma non compromettere un bel niente. Per questo non era il discorso che molti desideravano a sinistra – ma si sapeva – e per questo è stato un discorso ancora più forte e incisivo, perché ha impedito a Berlusconi e i suoi di dargli del traditore, del voltagabbana, del matto. “Non sono un eretico” è la frase che Fini ha detto più volte nel corso della sua relazione.

E’ esattamente questa la ragione per cui un Berlusconi furente ha poi fatto quell’attacco violento e scomposto, rivelando cose che Fini avrebbe detto durante una riunione privata e poi attaccandolo su quelle cose – non su quelle dette durante il discorso – e invitandolo alle dimissioni. Fallito il tentativo di disinnescare Fini facendolo parlare dopo Rotondi e chiunque passava da lì, bisognava allora metterlo alla gogna: lui non ci si era messo, grazie a un discorso pacato e sensato. Ci ha pensato Berlusconi, che senza quella piazzata da bullo sarebbe uscito indebolito dalla direzione nazionale. E che ha deciso di uscire dall’angolo mostrando tutta la sua forza, chiedendo a Fini le sue dimissioni e agli altri di prendere una posizione precisa.

La giornata di ieri ci dice due cose. La prima è che Fini è e rimane un dirigente del Pdl e non ha alcuna intenzione di lasciare il centrodestra (non vuol dire che non lo cacceranno, ovviamente). La sua è una battaglia di lungo periodo e di logoramento: non gli interessa far cadere il governo, non lo farebbe neanche se potesse e comunque non può. La seconda cosa è Berlusconi è pazzo al punto da farlo cadere lui.