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Dritto al punto

Avrete letto della raccomandazione fatta ieri al governo francese da una commissione che ha lavorato per mesi sulla questione del velo integrale. Al termine di oltre 200 audizioni e di sei mesi di lavori, la commissione ha concluso raccomandando al governo di proibire il velo negli uffici amministrativi e sui mezzi del trasporto pubblico. Si tratta evidentemente di una questione vasta e problematica, anche perché la motivazione addotta a giustificare il divieto – «è contrario ai valori repubblicani» – mal si sposa con una proibizione limitata solo ad alcuni precisi settori e quindi apparentemente ispirata più a ragioni di ordine pubblico che di lotta alla sottomissione delle donne. Il contenuto fumoso della raccomandazione si deve probabilmente alla composizione variegata della commissione, composta da parlamentari di orientamento politico molto diverso, che ha reso complesso l’approdo a una conclusione condivisa e unanime.

In ogni caso, la questione ha riaperto una qualche discussione sulla questione del velo integrale, della condizione delle donne musulmane e soprattutto di come affrontare questo problema quando si presenta in Occidente. Ora, dato come condiviso il duplice obiettivo della lotta alla sottomissione delle donne e della tutela della libertà di vestirsi come si preferisce, la seconda parte di questo post di Giovanni Fontana riassume bene i pro e i contro di una misura atta a proibire del tutto il velo integrale.

Qual è il pericolo?
Sicuramente quello della ghettizzazione. È molto probabile che una parte, una buona parte, delle donne che ora vanno in giro con il Burqa subirebbero divieti ancora più stringenti da parte dei loro mahram (mariti, fratelli, zii, cognati che le hanno in “gestione”). E non è per nulla facile identificare questi veri e proprî rapimenti, anche perché queste donne – spesso – in Europa hanno solo la famiglia, che è quella che le reclude.

A chi giova?
Sicuramente la cosa più importante non è il fatto in sé, non è quella manciata di donne che – non potendo mettere il Burqa o il Niqab – usciranno un poco più scoperte, bensì il messaggio che si manda. I messaggi sono importantissimi e significativi, e sono sempre troppo sottovalutati. In questo momento, in ogni parte del mondo, ci sono delle persone che stanno combattendo la loro battaglia contro il burqa, una battaglia con sé stesse e con i loro maschi-padroni. Sapere che c’è qualcuno che sta dalla parte giusta è fontamentale, e infonde forza. Tutte coloro che ne sono uscite non smettono mai di raccontare quanto sono importanti questi segnali, così come non smettono mai di rimproverare gli atteggiamenti troppo accomodanti su cui ogni tanto ci impigriamo.

Ci ho pensato e credo che la bilancia penda più dalla parte degli svantaggi. Aggiungo altri pericoli: l’istituzione, seppure in ottima fede, di un pericoloso precedente giuridico di limitazione della libertà personale sulla base della presunta «offensività ai valori della repubblica» di un comportamento individuale; il solleticamento dell’orgoglio scemo di chi direbbe «Ah sì? Allora me lo metto!»: ci conosciamo, sappiamo trasformare in bandiere infamie e inezie. In generale, mi sembra che abbiamo da una parte il rischio immediato di fare dei danni concreti, dall’altra la speranza di confortare e rafforzare lo spirito delle donne segregate, nella speranza che presto o tardi questo possa renderle abbastanza forti da emanciparsi con le proprie forze.

La mia idea è che il numero e le dimensioni di questi rischi hanno molto a che fare con la natura prescrittiva e forzata del provvedimento, e sarebbero molto ridimensionati se la politica e i governi condannassero pubblicamente l’utilizzo del burqa, senza ipocrisie terzomondiste o razziste, ma fermandosi un passo prima dal renderlo illegale, e si impegnassero invece a testa bassa nella lotta al tradizionalismo, ai pregiudizi, alla violenza, alla sottomissione e alla segregazione delle donne. Il burqa mi sembra più un effetto che una causa: il simbolo odioso e dannoso di qualcosa molto più grande. Capisco le ragioni (ideali e propagandistiche) di un provvedimento simbolico ma credo che si tratti di leggi fisiologicamente divisive – estremizzano gli schieramenti e le posizioni, rendendoli più sordi e stupidi – e credo che tendano pericolosamente a rafforzarli, i simboli, invece che indebolirli – vedi cos’è successo in Italia col crocifisso. La battaglia culturale va combattuta contro il tradizionalismo e le arretratezze delle religioni in generale e dell’islam in particolare. La battaglia politica per la libertà delle donne va combattuta invece nel diritto di famiglia, nella laicità dello stato, nella violenza domestica, nella pubblica istruzione, nella severa vigilanza sulle condizioni dei minori. Tutti temi che arrivano dritto al punto: aggrediscono frontalmente i problemi senza minacciare la libertà individuale, costringono gli interlocutori in campo a posizioni più chiare, gli impediscono di nascondersi dietro obiezioni scivolose o ambigue. E forse, in fin dei conti, oltre a essere più efficaci, sono anche più potenti dal punto di vista simbolico.