Questo sito contribuisce alla audience di IlPost

L’anno dell’Iran

Mentre a Teheran si succedono proteste, scontri e violenze, azzardo una previsione che è anche un desiderio: il 2010 sarà – molto più di quanto lo sia stato il 2009 – l’anno dell’Iran.

Le proteste che sono seguite alle (sic) elezioni politiche di questa primavera sono state un momento di svolta soltanto nell’intensità e nella profondità di frizioni esistenti ed evidenti da mesi, forse anni. Ce ne sono di vari livelli, tutti intrecciati tra loro, e questo rende particolarmente complessa l’interpretazione di una situazione mai così instabile. C’è una spaccatura tra l’autorità religiosa e la componente militare: tra Khamenei e Ahmadinejad, tra i guardiani della rivoluzione e gli imam. Una spaccatura che ha tagliato trasversalmente anche la cosiddetta rivoluzione verde, che è composta da giovani di belle speranze ma anche da religiosi, nonché da tanti giovani di belle speranze religiosi, e che parte delle autorità islamiche (moderate nel loro radicalismo, in confronto agli altri; ma anche nel loro liberalismo, in confronto alla civiltà occidentale), da Rafsanjani e Karroubi, ha sostenuto e appoggiato, un po’ per combattere Ahmadinejad, un po’ per combattere Khamenei. C’è una spaccatura interna allo stesso ceto religioso, tra alleati e nemici di Khamenei, che fin dal momento in cui è diventato guida suprema è stato accusato di essere debole e prono ai politici, tutto il contrario del suo predecessore. C’è un’altra spaccatura – per quanto ogni giorno che passa si vada ricomponendo, come spiega tra le tante cose questo interessante post di Lorenzo Cairoli – tra città e provincia, tra giovani e anziani, tra i ceti tradizionalmente avversi ai regimi dittatoriali (studenti, abitanti delle città) e quelli tradizionalmente più conservatori e avversi ai cambiamenti. Il tutto fa sì che l’Iran sia una polveriera a un passo dalla guerra civile. Ogni settimana qualsiasi occasione è buona per manifestazioni e scontri di piazza. Si fa fatica a distinguere con nettezza i confini che separano i buoni dai cattivi: c’è tutta una zona grigia, in mezzo, della quale sappiamo veramente poco. Il governo è completamente nel pallone e la violenza efferata con cui sta reprimendo le proteste è tipica delle dittature che hanno perso il controllo della popolazione e dei loro stessi strumenti di intimidazione.

Tutto questo rende il governo iraniano enormemente più imprevedibile. È la condizione più pericolosa per chi sta in Iran e anche per chi sta appena fuori, ma è anche quella da cui è inevitabilmente necessario passare per cambiare le cose. La mia speranza è che la comunità internazionale – Stati Uniti in testa, l’Ue ormai è completamente irrilevante – preferisca assecondare gli sforzi di chi cerca di abbattere il regime, piuttosto che i tentativi di conservare una stabilità che tutto è meno che pace, tantomeno giustizia. Il regime sta prendendo tempo sulla questione nucleare, simulando delle aperture per poi rovesciare i patti dopo pochi giorni e ricominciare nuovamente a discutere. Mi pare di capire che il loro tentativo – più di Ahmadinejad che dei religiosi – sia lavorare perché passi la bufera interna, sia nella società che tra gli ayatollah, e per fare questo senza interferenze da fuori serve tenere occupati Usa e Onu aprendo degli spiragli. Se le cose andranno come sperano, a un certo punto faranno saltare definitivamente il tavolo e ricominceranno a incolpare gli Stati Uniti e l’Occidente di voler compromettere la loro economia e di negare il loro diritto al nucleare, sfoderando la più classica delle strategie per compattare un popolo diviso. Diversamente, potrebbero cedere e introdurre qualche timido e non risolutivo cambiamento.

Per il momento, gli Stati Uniti stanno tentando di indebolire l’Iran isolandolo, vedi gli sforzi di Obama volti a convincere Russia e Cina ad appoggiare le sanzioni, il cui valore in questo senso va ben oltre il loro scarso impatto sull’economia iraniana. Immagino ci sia una qualche forma di sostegno clandestino all’opposizione, ma evidentemente si tratta di programmi e operazioni che se sbandierati perderebbero senso ed efficacia. Le trattative possono sempre portare da qualche parte e conseguire minimi ma significativi risultati, anche se queste situazioni tendono a logorare più i buoni che i cattivi. La linea dura può essere utile, anche se c’è il rischio di fornire al regime e all’intera area una sponda per le loro mistificazioni sull’Occidente come regista delle proteste. Insomma, davvero non è possibile individuare una strategia vincente, tantomeno prevedere come andranno le cose. Se l’instabilità è un crocevia obbligato verso qualsiasi cambiamento, infatti, non è affatto scontato che questo cambiamento, anche dovesse avvenire, sia migliorativo. La stessa storia dell’Iran ci insegna che all’indomani della caduta di un regime la perdita di punti di riferimento autorevoli, l’assenza di un collante patriottico (nel senso più laico del termine) e la forza dei richiami all’ordine rischia di rimettere in testa allo stato religiosi e fanatici. Per questo la comunità internazionale deve tenere gli occhi aperti e non rinunciare all’esercizio della sua influenza: se le cose continuano così, arriverà il momento in cui occorrerà decidere su chi puntare e dargli il massimo sostegno politico, diplomatico, economico, militare. Noi possiamo fare poco di più che restare a guardare e raccontare quel che accade. Se vi va di approfittare di queste vacanze per saperne qualcosa in più, la cosa migliore sulla situazione iraniana che ho letto in questi mesi è quest’analisi di Roger Cohen per il New York Times: è molto lunga e non è rivelatrice, ma spiega molto di quel che si è fatto finora e delle opzioni possibili.