Ci vai o non ci vai?
(il titolo perfetto per questo post in realtà sarebbe questa striscia qui, da Wizard of Id – di cui parleremo un’altra volta – e pubblicata su Friendfeed da Farfintadiesseresani)
Non mi sono posto più di tanto il problema dell’andare o no fisicamente al No B. Day, dato che con ogni probabilità ci andrò comunque per lavorare. E in qualche modo non trovo nemmeno particolarmente interessante tutto il dibattito sul vado/non vado: ogni mese le strade di Roma sono invase da decine di manifestazioni, alcune molto più giuste e condivisibili di quella di domani, eppure a nessuno viene in mente di mettere in piedi tutto questo teatrino. La versione breve di questo post, quindi, è che se non dovessi andarci per lavoro, domani resterei a casa. Per chi ha curiosità e tempo, segue la versione lunga.
«Scendere in piazza fa bene!»
La prima ragione ha a che fare con le manifestazioni di piazza in generale. So che la mia è una posizione di ultraminoranza, talmente di ultraminoranza che non la scrivo praticamente mai, visto che si presta facilmente alle accuse più sciocche (fighetto! snob! elitario!) e spesso ci sono altre e migliori ragioni per non andare in piazza. A me le manifestazioni non piacciono, mi trovo in imbarazzo ad andarci e credo che – salvo alcuni casi, ci arrivo dopo – non servano a niente. Della politica mi piace la ricerca delle soluzioni ai problemi e la loro attuazione, i meccanismi di creazione del consenso, la sfida della dialettica. Trovo che la piazza sia l’opposto di tutto questo: il luogo in cui i dubbi e le sfumature spariscono, in cui il consenso si cristallizza e il fondamentale atto di convincere l’altro – quello che in piazza non c’è, quello che non è d’accordo con te – diventa più complicato, invece che più semplice. La piazza in generale, quella di domani in particolare, è un posto in cui le ragioni stanno tutte da una parte e i torti stanno tutti dall’altra. C’è solo un altro posto in cui le opinioni si dividono in questo modo così sordo e netto: lo stadio. A quello faremmo bene a lasciare il manicheismo di manifestazioni come questa.
Certo, ci sono alcune manifestazioni che non rientrano in questa categoria, e sono quelle a cui invece aderisco e, quando posso, vado volentieri: le manifestazioni che servono a sostenere una minoranza a cui sono negati dei diritti. Dove per minoranza non intendo “persone che hanno un’opinione di minoranza” bensì “persone appartenenti a una minoranza”. Le manifestazioni degli immigrati contro il razzismo, le fiaccolate contro l’omofobia, i sit in degli operai di Eutelia. Quelle manifestazioni servono innanzitutto a dare forza e conforto a chi è investito in prima persona da una discriminazione o da una violenza, e mostrare come – in una società corporativa come la nostra, dove le donne manifestano per le donne, i gay manifestano per i gay, i pensionati per i pensionati – le loro istanze sono condivise anche da chi non condivide la loro condizione. Quella di domani non è una manifestazione di questo genere. È uno sfogo: ne capisco l’esigenza, ma la politica non è una cosa che si fa per sentirsi meno soli.
«Ma dobbiamo reagire!»
Certo che dobbiamo reagire. Dato questo come condiviso, la domanda successiva è: come? Magari bisognerebbe farsi venire in mente qualcosa che serva e funzioni. Non basta chiedere a Berlusconi di dimettersi perché lui lo faccia, e soprattutto non basta che Berlusconi si dimetta per considerare risolto il problema.
Io non voglio che Berlusconi si dimetta perché glielo chiedo: voglio che perda il consenso democratico di cui gode e voglio lavorare per quello. Le dimissioni di un uomo che la maggioranza del paese vorrebbe tuttora a propria guida non mi sembrano un successo: mi sembrano una sconfitta doppia.
In questo senso il No B. Day assomiglia alla surreale petizione che s’inventò Giovanni qualche tempo fa, la raccolta di firme per abolire la morte, solo che quella era una provocazione surreale, divertente e plateale. Ecco, semplificando: la raccolta di firme per abolire la morte sta alla ricerca della cura al cancro, come il No B. Day sta ai tentativi di costruzione di un progetto alternativo e agli sforzi di sottrarre consensi al centrodestra. Magari la firmo pure, se mi va, la petizione. Basta che non ti prendi tanto sul serio e non mi racconti che stai davvero abolendo la morte. Tra l’altro, nonostante la completa buona fede degli organizzatori della manifestazione, non sarebbe affatto una sorpresa se a fine giornata la manifestazione si sarà rivelata controproducente rispetto all’obiettivo che le fa da ragione sociale. Da una parte c’è un governo completamente in panne che ha un disperato bisogno di occasioni e ragioni per dare un’immagine ricompattata di sé, dall’altra uno squadrone di arringapopolo che si fa sempre scappare dalla bocca qualche idiozia buona per i titoli del giorno dopo, come insegnano piazza Navona e i vari V-Day.
«Non possiamo non parlare con quella gente»
Sono d’accordo, e penso infatti che il Partito Democratico – per forza di cose interlocutore obbligato di quel movimento di opinione – abbia dato uno spettacolo penoso, in alcun modo dissimile dai tentennamenti della gestione veltroniana ai tempi di piazza Navona e del No Cav. Day. Possiamo dire con una certa sicurezza che il primo caso politico di una certa importanza della gestione Bersani è stato gestito con totale improvvisazione, nelle uscite sui giornali e nelle prese di posizione sulla manifestazione di domani. Esemplare il caso di Rosy Bindi, capace di dire tutto e il contrario di tutto nel giro di pochi giorni. Magari troverà anche il coraggio di lamentarsi quando sarà fischiata, domani. In ogni caso, il dialogo con un movimento di opinione – specie con uno apertamente ostile – non si fa in piazza. Si fa, se lo si ritiene opportuno, con le posizioni politiche, cambiandole o aggiornandole. Lo si fa dicendo delle cose, e magari facendole. Pensare che andare in piazza dopo aver tentennato per giorni possa bastare per instaurare un dialogo è sbagliato e pericoloso, e ci sono anche dei precedenti: Fassino nel 2004 fece un’improvvisata a una manifestazione contro la guerra e gli diedero dell’«assassino». Prodigi della piazza.
«È la prima manifestazione organizzata dalla rete»
Ci sarebbero da fare delle precisazioni rispetto a quest’affermazione, ma prendiamola per buona. Sarebbe più sensato dire però che – come ho cercato di spiegare più volte, sull’Unità – la manifestazione è organizzata da persone, attraverso la rete. Internet sta cambiando il mondo, e quindi anche la politica, e trovo molto interessante la dinamica attraverso cui queste persone si sono messe insieme e hanno organizzato una cosa più grande di loro. Ma questo, va da sé, non ha niente a che vedere con la validità della loro tesi politica e col gradimento che io dovrei avere di quella tesi. Per questo motivo, trovo davvero ipocrita l’atteggiamento di chi aderisce perché «è la prima manifestazione organizzata dalla rete». Siamo fortunati che non l’abbiano organizzata prima i nazisti, una manifestazione in rete.
C’è poi un altro discorso: Di Pietro. Io ho conosciuto le persone che si stanno occupando della manifestazione e ho raccontato di chi si tratta: posso dire con ragionevole certezza che non si tratta di esponenti dell’Italia dei valori né di loro oscuri emissari. Allo stesso modo ho fatto notare come, per lo meno nella sua fase embrionale, il ruolo di Di Pietro sia stato superiore a quello di una semplice adesione. Detto questo, bisogna mettersi d’accordo su una cosa. Tutto il dibattito sul presunto “cappello” di Di Pietro è fuorviante e malposto. Detto che per “mettere il cappello” non è indispensabile gestire l’organizzazione della manifestazione, ma basta usarla quotidianamente come clava nei confronti del Pd nel completo silenzio degli organizzatori, a me interessa fino a un certo punto quanto l’Italia dei valori sia coinvolta nel No B. Day. Quello che mi interessa è quale sia il senso, il messaggio e le idee che stanno dietro quella manifestazione, e mi sembra di poter dire che si tratta delle idee, del messaggio e del sentire dell’Italia dei valori, a cominciare dal terribile appello che la convoca. Tutti in buonissima fede, così come la grandissima parte degli elettori dell’Italia dei valori: ma penso ancora che dovremmo riconquistarli, quegli elettori, e non semplicemente inseguirli.
«È la festa dell’Italia civile»
Vero e falso. Nel senso che anche quando in questi giorni sono stato meglio disposto verso la manifestazione, mi è bastato leggere due o tre cose a caso per farmi venire da vomitare. E quindi faccio mie le parole di Francesco Piccolo sull’Unità di lunedì:
Da questa parte, dalla parte degli antiberlusconiani, siamo in tanti, la pensiamo in maniera diversa su tante cose, ma siamo costretti a stare tutti insieme. Siamo costretti a stare sempre insieme con forcaioli, violenti, reazionari, comici diventati messia, gente che starà bene soltanto quando vedrà tutti in galera, altri che fanno una satira di serie C e altri ancora che mandano mail a tutto il mondo con barzellette su Berlusconi o sull’altezza di Brunetta. Molti di quelli che stanno da questa parte sono diventati, o sono disposti a diventare, peggiori di quelli che sono. Perché, dicono, è Berlusconi che ci costringe a farlo. Ecco, è esattamente questa conclusione che respingo con tutte le forze: non voglio essere peggiore di quello che sono; perché lo sarei da quindici anni e ancora per qualche anno, suppongo. E si può essere peggiori in modo cosciente, e addirittura volontario, per un giorno o per una settimana, ma non per un Ventennio.
Non c’è un’Italia civile che sarà in piazza e una incivile che resterà a casa. E per quanto si possa desiderare e urlare con tutte le forze che Berlusconi sparisca domani, domani ce lo ritroveremo lì – e se non sarà lì, non sarà successo a causa del No B. Day. Nonostante quello che pensano molti di quelli che saranno in piazza domani, le cose sono molto più complicate di così.