Questo sito contribuisce alla audience di IlPost

Diventare adulti

Veniamo subito al dunque: e ora? Ora ci aspetta certamente un Pd migliore di quello che abbiamo visto nell’ultimo anno. Non è poco. Succederà per tre ordini di ragioni. Il primo motivo è la fisiologica luna di miele che spetta a ogni segretario appena eletto (ve la ricordate quella di Franceschini?). Il secondo motivo che da domani siamo già praticamente di nuovo in campagna elettorale, complice anche il caso Marrazzo, e fino alle regionali la ragion di stato prevarrà sulla litigiosità. Il terzo motivo è che l’inadeguatezza della linea di Bersani – almeno per come è stata annunciata, valuteremo poi la sua realizzazione – è fatta di decisioni le cui conseguenze si misurano sul lungo periodo. Il partito di Bersani non ci farà incazzare per dei manifesti da malati di mente o per delle uscite estemporanee al limite dell’improvvisazione, e nemmeno per avere posizioni particolarmente più conservatrici di quelle attuali (sebbene tutto, a cominciare dalla comunicazione per proseguire con le persone, sembra destinato a essere improntato a quella nostalgia – diessina, ulivista, a tratti persino unionista – che è stata la chiave di volta della sua campagna). Il crocevia, in questo senso, è rappresentato dalle elezioni regionali. Se il Pd viene fuori dalle elezioni regionali con una percentuale decente in termini di elettori, con delle alleanze fatte razionalmente e con un minimo di buon senso (che vuol dire sì alleanze con l’Udc, ma presentabili, e no liste a sostegno di Galan, per fare un esempio) e con un risultato che assomigli il più possibile a una vittoria, allora il resto sarà più o meno in discesa per qualche tempo. Badate, si andrebbe sempre avanti a botta e risposta, polemiche, distinguo, ma il progetto ulivista di Bersani sarebbe sulla buona strada, il Pd avrebbe in qualche modo invertito la rotta, la guerra di successione ai danni di Berlusconi si sarebbe fatta ancora più aspra e i nodi verrebbero rimandati di un bel po’. A quando? A quando si dovrà mettere in piedi un’alleanza per governare il paese, a quando si dovrà scrivere un programma, a quando si dovrà trovare un candidato premier, a quando si dovrà governare cercando di non ripetere la figura penosa dell’ultima volta, eccetera. A quando ci si troverà ad affrontare gli stessi problemi del 2006 con gli stessi strumenti e le stesse persone del 2006. Se invece le regionali saranno un fiasco, beh, auguri.

Chi perde
Tra la vittoria di Bersani e il risultato di Marino più o meno nelle aspettative (in questo momento è tra l’11 e il 12), il vero sconfitto è Franceschini. Così come toccò al suo predecessore in occasione delle politiche, anche nel suo caso si è parlato a lungo di una rimonta che non c’è mai stata. Al contrario, c’è stato un sostanzioso arretramento rispetto al già non esaltante risultato dei congressi, che ha confermato il fallimento da parte dell’ormai ex segretario di riuscire a sfondare in maniera sostanziosa nell’elettorato lontano dal suo mondo di provenienza. La sconfitta di Franceschini è lo specchio del disastro di questi due anni, compresi gli ultimi sette mesi di cui tanto si è favoleggiato (abbiamo tenuto, eccetera eccetera): un gruppo dirigente – veltroniani e popolari – che tiene in mano un partito per due anni – l’organizzazione, la comunicazione, i commissari, diverse segreterie regionali – e finisce con appena un terzo dei consensi è un gruppo dirigente che ha sbagliato tutto e dovrebbe trarne le conseguenze. Si è confermato, inoltre, il fallimento delle liste prive di una completa identificazione col candidato: le liste “Semplicemente democratici” (che poi nei collegi son diventate cose tipo “Con David Sassoli e Debora Serracchiani Semplicemente Democratici per Dario Franceschini”) sono state un discreto flop, tanto che i popolari hanno già iniziato a rumoreggiare e David Sassoli – probabile candidato alla presidenza del Lazio – rischia di non essere nemmeno eletto in assemblea nazionale.

E Marino
Marino ha fatto il suo, come avevo scritto: niente di più, niente di meno. Si attesterà intorno al 12 per cento ma l’impronta di questo risultato (“cosa rimarrà”) non sarà determinata tanto della percentuale quanto dai contenuti della sua mozione, di qualità, orizzonte e modernità nettamente superiori alle altre due. La battaglia politica per il cambiamento e il rinnovamento di questo partito non è cominciata con la mozione Marino e non finisce con la mozione Marino: questo risultato rappresenta invece un gigantesco passo avanti, soprattutto per il patrimonio di forze, braccia e teste che hanno lavorato a questo progetto. A questo punto, prima si ricomincia a camminare e meglio è. La sfida, oggi e per il futuro, è smettere di ragionare rigidamente in termini di mozione. La partita è finita, ne comincia un’altra ed è bene cominciare a giocarla da subito. Continuare a ragionare in uno schema mariniani-franceschiniani-bersaniani sarebbe sciocco e autolimitante: ci sono tantissime persone nelle altre due mozioni che sono affini per storia, idee e aspirazioni alla gran parte delle persone che hanno animato la mozione Marino. Mentre invece nella mozione Marino c’è – fisiologicamente, eh – un po’ di roba che col rinnovamento e i buoni non ha molto a che fare, e che infatti non ha perso tempo e sta già tentando di mettere in piedi una zozzeria non indifferente come quella del Lazio. Nessuno deve rinunciare ai buoni rapporti e alle amicizie che ha raccolto in questi mesi nella mozione Marino, ma da lì bisogna ripartire lanciando una sfida all’intero partito. Da oggi e per un po’, per un bel po’, la sfida interna al Pd non si gioca più, almeno per chi vuole rinnovarlo, sul campo dell’organizzazione interna del partito e del ricambio delle classi dirigenti. C’è un nuovo segretario che ha avuto un ampio mandato per formare una segreteria e una direzione, c’è in campo un nuovo progetto per questo partito. Faremo tutti, col tempo, le valutazioni intorno a questo disegno e al modo in cui sarà realizzato. Ora è tempo di tornare, finalmente, a parlare di cose e non del partito. E su quelle cose ricostruire i ponti e le allenze messe in stand by dall’incombenza del congresso e mettere a frutto questo patrimonio di forze investendo in iniziative, campagne, idee. Il talento da solo non porta lontano: è ora di guadagnare spazio nel paese, mettersi alla prova e giocare fino in fondo la sfida del consenso. Diventare adulti, a cominciare dalle regionali.