Dove siamo finiti
Da ieri, da quando l’ho letto, penso a se e cosa rispondere a questo post di Leonardo. E’ un post che mi ha fatto star male. Non tanto per le sciocchezze populiste affastellate nella prima parte del post (l’idea che la democrazia si esporti come un kit – punti alla capitale, apri un parlamento e il gioco è fatto – non l’ha mai sostenuta nessuno, se non per fare la sciocca caricatura di chi invece ha sempre detto che sarebbe stata una cosa lunga, complicata e necessaria), quanto per le ultime righe. Cose che fa veramente male leggere da parte di chi pensa, in buonissima fede, di essere di sinistra.
Il giorno che ce ne andremo da Kabul, sarà il giorno che ci sveglieremo in un mondo più cattivo: senza destino, senza sacre missioni, senza progresso. Parola un po’ abusata, anche da me: forse non c’è nessuna direzione verso cui tendere, forse progredire significa semplicemente adattarsi all’ambiente. Il tirannosauro era già perfettamente progredito, dal suo punto di vista; poi è cambiato l’ambiente. L’Afganistan è una gola tra il Karakorum e deserto, e ci cresce bene l’oppio; forse il tribalismo non è un retaggio del passato, ma il sistema di governo più adatto all’ambiente. E non è neanche vero che non progredisce: smette le lance e passa ai razzi terra-aria, sostituisce i messi coi telefoni cellulari, e si trasforma nella versione più evoluta di sé stesso: la narcomafia.
Qui non c’entrano, almeno non direttamente, la guerra in Afghanistan o quella in Iraq. Non è in discussione l’idea che sia più o meno difficile perseguire il progresso – cioè vivere meglio e più a lungo, essere più felici, più liberi, il maggior numero di persone possibili – e i mezzi migliori e più efficaci per farlo, quanto la possibilità stessa che sia giusto perseguirlo. Che sia necessario. Che sia il motore delle cose delle persone e del mondo: la cosa che ha reso questo momento, oggi, migliore di tutti i momenti che lo hanno preceduto. Il cinismo e il disincanto di quella frase sono molto più vicini alla storia del pensiero reazionario piuttosto che a quella della sinistra. Non è una novità, purtroppo, né una sorpresa: ma fa ugualmente male trovarsi davanti ai suoi effetti, tutte le volte. Da qualche tempo, schiava di retaggi culturali, di luoghi comuni e riflessi condizionati, la sinistra ha gettato via il suo patrimonio migliore per abbracciare la più becera e sconclusionata delle ideologie. Si è capovolta. Una sinistra normale, che preferisca tener fede alla sua ragione sociale – stare dalla parte dei deboli e degli oppressi – piuttosto che ai suoi tic, discuterebbe certamente del come e del dove, della guerra e delle sanzioni, dell’Afghanistan e dell’Iraq. Ma non del se, e soprattutto non del perché.