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Di norma, il cronista che vuole raccontare un nuovo movimento e l’ultima manifestazione di piazza, si aggira tra la folla porgendo alcune classiche domande. Chi è il vostro leader, il vostro portavoce? Avete un ufficio stampa a cui poter chiedere dettagli sull’iniziativa, non è che mi girate un comunicato? Avete una sede? Dove possono trovarvi e iscriversi, le persone interessate alle vostre battaglie? Queste domande sono da tempo sempre meno efficaci: un po’ perché è cambiato il modo in cui le persone e le idee si aggregano tra loro, facendosi sempre più frastagliato e disordinato; un po’ per la crisi dei tradizionali meccanismi di rappresentanza, partiti, sindacati, associazioni. In qualche caso, poi, nessuna di queste domande è destinata a trovare facilmente risposta. I cosiddetti «micropride», le fiaccolate contro la violenza omofobica che hanno riempito le strade di diverse città d’Italia nelle ultime settimane, ne sono un notevole esempio.
La storia dei micropride prende inizio il 28 agosto, all’indomani dell’ennesima intimidazione ai danni della comunità gay romana, quando un gruppo di persone decide di mobilitarsi e indire una manifestazione in via di San Giovanni in Laterano, a Roma, che ormai tutti chiamano gay street. Spargono la voce via sms e sui social network, soprattutto su Facebook, chiamano gli amici e i conoscenti e radunano qualche centinaio di persone. Neanche il tempo di soffermarsi su quanto accaduto che arriva l’episodio delle due bombe carta, e stavolta la risposta del popolo dei micropride – che nel frattempo ha deciso di chiamarsi “We have a dream” – è persino più rapida di quella del panorama frammentato e un po’ litigioso delle associazioni storiche, dall’Arcigay al circolo Mario Mieli, che seguono a ruota, forse con qualche diffidenza. Il primo venerdì di settembre, una fiaccolata porta a marciare per le strade di Roma una folla appassionata, tenace e allegra. Sono in duemila, e sono arrivati lì esclusivamente grazie al passaparola e a internet. Decidono di non perdersi di vista e darsi appuntamento ogni venerdì sera. La stessa cosa avviene a Torino, a Milano, a Bologna, a Genova, a Napoli, a Bergamo, a Brescia. Spontanei sì, estemporanei no.
Cristiana Alicata ha poco più di trent’anni ed è uno dei volti – dei corpi, direbbe lei – di questo movimento. Ingegnere, fa parte del tavolo Lgbt del Pd: un piede nella militanza politica e uno nel movimento, e come lei diversi degli altri che hanno promosso e partecipato ai micropride. Stavolta, dice, serviva qualcosa di diverso. «Sentivamo il bisogno di uscire dai ghetti. Se vai al Gay Village puoi sempre esserci andato per ballare, se vai alla gay street puoi sempre esserci andato per farti una birra. Se fai una fiaccolata, se esci dal ghetto, stai dicendo alla città perché sei lì, in modo chiaro e inequivocabile». Alla base dei micropride, prosegue Cristiana, c’è un grande desiderio di autodeterminazione, di appropriarsi di spazi che non siano recinti autoreferenziali. «Oggi la comunità ha i suoi luoghi, avulsi dal resto della città. Noi invece vogliamo contaminarla ed esserne contaminati. Vogliamo poterci sentire a casa ovunque, non solo nei luoghi preposti e scontati». La svolta, radicale, era nell’aria da tempo e sicuramente è frutto delle esperienze, delle vittorie e delle sconfitte dell’associazionismo e del movimento gay degli ultimi dieci anni. Fino all’arrivo di “We have a dream”, però, nessuno si era spinto così in avanti.
L’approccio è ribaltato. La differenza tra la fiaccolata del micropride e la festosa parata del gay pride sta nel salto tra una colorata e rituale rivendicazione della propria diversità a una martellante e indefessa rivendicazione della propria uguaglianza. Le due cose, ovviamente, non si escludono affatto. «Il gay pride – continua Cristiana – è la nostra festa che si rinnova ogni anno: nessuno può mettere in discussione una storia così lunga e importante. Il movimento però deve fare un passo avanti, iniziando un percorso comune che abbia come interesse primario il raggiungimento degli obiettivi della comunità, piuttosto che quelli della singola associazione. Una comunità che deve unirsi e allargarsi piuttosto che spezzettarsi e ritirarsi, ciascuno nel suo territorio».
L’emergenza, oggi, è approvare la legge sull’omofobia promossa dalla deputata del Pd Paola Concia e mettere fine al clima di intolleranza di questi mesi. Nessuno però mette in secondo piano le lotte per il matrimonio, per la parità dei diritti, per la lotta alle discriminazioni. La prossima tappa è fissata per questa sera, a Montecitorio; in tante altre città d’Italia succederà lo stesso. Di fiaccolata in fiaccolata, di marcia in marcia, il movimento Lgbt ha tirato fuori il meglio di sé in uno dei momenti più complicati della sua storia.