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2009 a.C.

Oggi Repubblica racconta la storia di Mbarka Sami Ben Garci, un tunisino quarantenne che si è lasciato morire di fame in carcere, per chiedere giustizia e rivendicare la propria innocenza. Di storie come questa ce ne sono sempre di più. Nelle carceri italiane ci si suicida venti volte di più che fuori, quasi cento volte in più nel caso del cosiddetto “carcere duro”. Nell’ultimo anno, poi, a fronte di un aumento della popolazione carceraria del 10 per cento, i suicidi in carcere sono aumentati del 50 per cento. La maggior parte di loro si impicca. Altri si feriscono a morte oppure, come Sami, smettono di nutrirsi, agonizzando per settimane. E allora mi sono chiesto: possibile che nei cinquanta giorni in cui una persona smette di mangiare, perde 21 chili, non si regge in piedi, inizia a vomitare acidi, non riesce nemmeno a tenere in mano una penna, eccetera, possibile che non passasse da lì nessun paladino dell’idratazione e dell’alimentazione forzata, nessun Quagliariello e nessun Letta, nessun cardinale e nessun vescovo? Va bene che Sami non era un vegetale – era persino tunisino, se è per questo – ma insomma.