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Le persone, non la rete

Si è discusso a lungo di quanto e come internet abbia influenzato l’evoluzione delle proteste in Iran, dal giorno delle elezioni a oggi. Un’analisi corretta dovrebbe in realtà cominciare prima, nelle ultime settimane di campagna elettorale, quando il regime decise di bloccare Facebook, sul quale Mousavi stava aggregando forze e consensi. Nonostante l’Iran avesse già allora una lunghissima storia di censure e blocchi della rete, la cosa era a suo modo un segnale. Il regime – che controlla tutti i mezzi di comunicazione del paese, giornali e televisioni – non permette che i personaggi sgraditi presentino candidature alle elezioni, e la candidatura di Mousavi aveva avuto l’approvazione dell’ayatollah, così come quella di Ahmadinejad. Perché, quindi, intervenire così duramente sulla campagna elettorale di un personaggio che, se scomodo o indesiderato, si poteva tranquillamente decidere di non candidare?

Qualcosa stava accadendo, ed era qualcosa che sebbene non avesse direttamente a che fare con internet, aveva però trovato sulla rete il modo per crescere rapidamente ed esponenzialmente. Lo abbiamo scoperto quando il movimento di opinione è diventato rivolta. Internet è stato per i manifestanti uno strumento fondamentale di organizzazione, oltre che di informazione per il resto del pianeta. Per ogni giornalista straniero rimandato in patria, cento ragazzi continuavano a fotografare, registrare, raccontare. Mentre il regime serrava i blocchi per le strade, i manifestanti usavano i blog e i social network per convocare le manifestazioni di piazza, comunicarsi i percorsi sicuri, scambiarsi dritte e notizie e parlare con lo stesso Mousavi, ormai leader della rivolta.

Poi il regime ha alzato ulteriormente il livello dello scontro, e con il rallentamento delle proteste nelle strade anche internet ha visto ridursi il proprio impatto. I filtri sul traffico dei dati sono stati potenziati, le antenne paraboliche sono state sistematicamente abbattute, i ripetitori dei telefoni cellulari sono stati disattivati per ore e ore. Soprattutto, però, il regime ha dato fondo a tutto il suo repertorio di orrori e violenze. Ieri è riapparso sul web Saeed Valadbaygi, un blogger che si riteneva fosse stato arrestato: «Negli ultimi giorni siamo stati attaccati dalla polizia e ci siamo dovuti spostare – si legge sulla pagina Facebook di Saeed – Grazie per le vostre email, torneremo presto alla normalità». Da giorni, infatti, non si hanno notizie di decine di ragazzi, che hanno smesso di aggiornare i loro blog e il loro account su Twitter. Saeed Valadbaygi è di nuovo in rete ma di persiankiwi, nickname dietro il quale si cela uno dei più attivi e informati protagonisti delle rivolte, continuano a non esserci notizie. Il suo account su Twitter tace da giorni, uno dei suoi ultimi messaggi dice: “Devo scappare, hanno preso uno dei nostri, lo tortureranno finché non farà dei nomi”. Poi silenzio. Un altro ragazzo, nickname Changeforiran, è stato rilasciato dopo essere finito in mano alle milizie, e sta coraggiosamente raccontando su Twitter la terrificante esperienza dei giorni sotto la custodia e le cure dei basiji.

I fatti di questi giorni ci ricordano – e lo fanno con straziante brutalità – che le proteste non sono state create da internet, bensì dalle persone. La rete si è rivelata uno strumento prezioso e cruciale, per la sua dinamicità, la sua versatilità e la molteplicità dei suoi utilizzi. Dietro ogni computer, però, siedono persone: possono essere terrorizzate, minacciate, arrestate, torturate, uccise. I loro sogni, però, non possono essere spenti con la stessa facilità con cui si spegne un ripetitore telefonico o si preme un grilletto. È il motivo per cui decine e decine di blog e pagine web tacciono da giorni, ma è anche l’unico motivo per continuare a sperare.

(per l’Unità di oggi, pagina 23)

update: quando era troppo tardi per aggiornare il pezzo, ho letto questa splendida notizia, che spero sia vera.