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La sconfitta che non c’era

I leader politici motivatori sono quelli che creano grandi aspettative, che fanno sembrare tutto a portata di mano, che prospettano il raggiungimento di obiettivi ambiziosi e difficili, infondendo speranza e fiducia. Sono quelli che guardano lontano e infatti sono gli unici che, ogni tanto, ci arrivano. I leader politici demotivatori sono quelli il cui primo obiettivo è abbassare le aspettative, disegnare scenari tristi e deprimenti, prospettare tragedie apocalittiche così che le sconfitte sembrino vittorie, e tutto venga lasciato così com’è. Sono quelli che ridimensionano gli obiettivi, per poi non raggiungerli comunque. Ci possono essere due chiavi di lettura per parlare del risultato del Pd a queste europee. La prima di queste chiavi è quella basata sulle aspettative della vigilia, tra previsioni di un Pdl oltre il 40% e di un Pd molto lontano dall’asticella del 27%. Con delle aspettative così tragiche e un obiettivo posizionato sei punti sotto il risultato delle ultime politiche, i risultati reali sono stati percepiti come buoni, soddisfacenti abbastanza da far pensare di averla scampata bella e darsi una pacca sulla spalla. Peccato che non sia così. La seconda e più efficace chiave di lettura, infatti, è quella basata sui numeri. Sul confronto dei dati con quelli delle precedenti elezioni, sul rapporto tra voti espressi e preferenze, sul risultato nelle diverse circoscrizioni. Se ne traggono ben altre conclusioni.

La perdita di consensi del partito è consistente. Il computo nazionale dei voti registra quattro milioni di elettori in meno rispetto alle politiche, un collasso tale non poter essere giustificato nemmeno con l’aumento dell’astensione. In un questo scenario poco idilliaco, alcuni territori si fanno notare per le loro condizioni particolarmente critiche: nelle circoscrizioni Nord Ovest e Sud il Pd ottiene appena il 23%, risultato minimo nazionale, parecchio lontano dai dati del 2008; in Umbria e nelle Marche il Pdl ha messo la freccia e ha raccolto la maggioranza relativa dei voti. Forte indebolimento anche sul fronte delle preferenze, specie per quel che concerne i capilista. Due capilista su cinque – Luigi Berlinguer nel Nord Est e Luigi De Castro nel Sud – sono stati sorpassati da altri candidati della loro compagine, mentre gli altri tre non si sono attestati su livelli stellari. Lo stesso David Sassoli, candidato più votato del Pd, ha preso appena la metà delle preferenze conquistate nel 2004 dall’allora candidato più votato, cioè Massimo D’Alema.

Proprio riguardo i capilista, può essere interessante ed emblematico scoprire come si è arrivati al nome di Luigi Berlinguer per il Nord Est, una delle scelte più discusse di queste elezioni europee. A seguito del regolamento del Pd sulle candidature (che proibiva di inserire personaggi ineleggibili nelle liste), tutti i papabili già parlamentari dovettero rinunciare all’idea di correre per un posto in Europa. A una settimana dalla chiusura delle liste il nome del capolista mancava ancora, e la scelta di Franceschini cadde su Claudio Magris. Settant’anni, triestino, scrittore e germanista, già senatore e a un passo del premio Nobel, Magris rifiutò l’invito, a causa di una lettera da lui inviata a Franceschini alla quale non era mai giunta risposta. L’emergenza era sempre più emergenza. Il Friuli propone allora Debora Serracchiani, l’Emilia Romagna si mette in mezzo e rilancia con Salvatore Caronna, il Veneto fa sapere che Caronna non gli è gradito e quindi se ne trovino un altro. Un rebus, mentre il tempo stringe. A ridosso della chiusura delle liste è Pierluigi Bersani a fare la mossa decisiva, telefonare a Luigi Berlinguer e chiedergli di fare da capolista per la circoscrizione Nord Est. Frittata fatta, e il resto lo sapete.

Quest’esempio racconta in maniera sintetica ma efficace l’andazzo di questa campagna elettorale, le cui gambe sono state tagliate dalle immancabili faide locali tra gruppi e fazioni, dalla debolezza della segreteria nazionale ma, soprattutto, dal continuo giocare al ribasso, dal soffocamento di ogni speranza, dall’appiattimento generale dei toni e degli atteggiamenti, impiegati in una battaglia di retroguardia che si è rivelata perdente, perversa e autolimitante. Se gli elettori del Pd avessero nutrito l’aspettativa di conseguire un risultato uguale o superiore al 33% dell’anno scorso, quale sarebbe stata la loro reazione nel vedere improvvisamente il loro partito crollare al 26%? Si sarebbero dati di gomito o avrebbero messo a processo l’intera classe dirigente, costringendola a un passo indietro? Certamente non si sarebbero rallegrati, e per questo il risultato di queste elezioni europee è particolarmente preoccupante. Perché rischia di ridurre la potenzialità espansiva del Pd e far sottovalutare i suoi problemi, e perché induce a fantasticare sulla possibilità di battere Berlusconi senza faticare granché. Il paradosso, neanche tanto imprevedibile, è che per evitare a tutti i costi di ammettere una sconfitta, si finisca per subirne molte di più.

(per Giornalettismo)