L’ultimo atto
Alcuni commentatori hanno sostenuto in queste settimane che la crisi istituzionale in Regno Unito, sommata al collasso della city, rappresenti il punto finale del progetto del New Labour, il fallimento di un percorso il cui bilancio è fortemente negativo. Io non potrei essere più contrario. Non solo perché il New Labour ha regalato alla Gran Bretagna una trasformazione completa, un ciclo di governo di notevolissima qualità e tre elezioni vinte consecutivamente, ma anche perché le cose che oggi stanno trascinando Gordon Brown nella polvere non hanno nulla a che vedere col progetto del 1997 e con i suoi risultati. Oggi il Labour soffre per tre motivi. Il primo è l’inevitabile logoramento di una classe dirigente al governo da troppi anni: la storia dei rimborsi parlamentari è la classica cosa che capita agli apparati di potere più fermi e arrugginiti. La stessa cosa vale per la sconfitta a Londra, dove il Labour governava da un pacco di anni. Il secondo è il dinamismo e l’appeal di David Cameron, il cui stile non fa mistero di ispirarsi a quello che fu già di Tony Blair. Il terzo è la sfiga. L’elenco delle rogne capitate a Gordon Brown in questi due anni è impressionante, e questo mio elenco sommario è fermo a un anno fa, quando la crisi economica era più uno spauracchio che una realtà. Dal 1997 al 2009 ci sono ben 12 anni, 15 anni se iniziamo a contarli dall’insediamento di Tony Blair alla leadership del partito: è un’epoca, un’era. Oggi assistiamo semplicemente alla chiusura di un ciclo politico, cose che accadono in qualsiasi democrazia matura. Nel caso del Labour, si tratta di un ciclo dal successo difficilmente ripetibile.