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Impossible is nothing

Era marzo. Walter Veltroni si era dimesso da poche settimane, Dario Franceschini si era appena insediato. Il neo-segretario lanciò sul tavolo un paio di proposte per incalzare il governo – l’assegno di disoccupazione, la tassa una tantum sui redditi alti – e ottenne il discreto risultato di far parlare il centrodestra di cose di cui lui aveva deciso di parlare. Gli elettori di centrosinistra si levarono in un coro di sollievo e speranza: finalmente il Pd cercava di dettare l’agenda, finalmente tentava di uscire dal coma. Tutti si aspettavano una moltiplicazione delle proposte e degli sforzi, con l’inizio della campagna elettorale. Si sbagliavano. Successe a marzo, non sarebbe successo più.

Nella lettura che diversi esponenti del Partito Democratico danno del berlusconismo e dell’egemonia del premier nella politica italiana, si scorge non di rado una vena di inesorabilità, di ineluttabilità. E’ come se a un certo punto, essendosi accorti dell’impossibilità di batterlo, i maggiorenti del Pd si siano rassegnati ad aspettare che Berlusconi si dissolva, se mai accadrà. Nell’attesa, meglio dedicarsi ad ampollose discussioni filosofiche sulle origini e l’inevitabilità del suo consenso: dipingere l’avanzata di Berlusconi come l’invasione delle cavallette è funzionale a giustificare e sollevare dalle proprie responsabilità una classe dirigente che in questi anni ha collezionato batoste su batoste. Nasce così buona parte delle teorie sull’Italia paese antropologicamente di destra, su Berlusconi unico interprete dell’Italia profonda, sulla creazione irreversibile di un nuovo blocco sociale, sulla trasformazione della società da parte delle tv commerciali. Ne consegue poi il goffo scimmiottamento delle politiche della destra su temi come l’immigrazione: se in Italia per vincere devi essere Berlusconi, allora è giusto cercare di assomigliargli il più possibile. Sebbene l’idea dell’imbattibilità di Berlusconi si legga quindi tra le righe di centinaia di dichiarazioni, ci sono due circostanze in cui questa resa incondizionata emerge più distintamente. La prima è la questione del referendum e della legge elettorale. Un’ampia fetta di dirigenti del Pd non fa mistero di ragionare sull’argomento chiedendosi non quale sarebbe la legge elettorale più giusta ed equilibrata per il paese, bensì quale sarebbe la legge elettorale che darebbe un margine minore alla vittoria di Berlusconi, che è ovviamente inevitabile e alla quale è bene preparare il proprio elettorato. La seconda questione è l’approccio rinunciatario del Pd a questa campagna elettorale. Mancano due settimane alle elezioni e il più grande partito dell’opposizione non è ancora riuscito a mettere in difficoltà la maggioranza su nessuna questione. Nessuna proposta sorprendente, nessuna battuta particolarmente riuscita di Dario Franceschini, il cui massimo della creatività è stato dichiarare che andrebbe volentieri a cena con Veronica Lario.

Nonostante questo, il Pdl sta mostrando diverse crepe. Ci sono almeno quattro versanti nei quali il Pd potrebbe cercare degli appigli. Primo: il rapporto tra Berlusconi e la Lega. Tutti sanno che queste elezioni rappresentano uno snodo cruciale nell’evoluzione dei loro rapporti, negli equilibri delle amministrazioni locali e delle alleanze in parlamento. Perché non smuovere un po’ le acque, animando l’esuberanza dei membri leghisti del governo? Perché non parlare apertamente di una Lega col cappio al collo, terrorizzata dall’essere scaricata da Berlusconi? Secondo, direttamente collegato: il referendum. Piuttosto che terrorizzarsi per la vittoria del sì, perché non scoprire il gioco di Berlusconi? Perché non dire che in caso di vittoria del sì Bossi può scegliere se fare il maggiordomo del premier o uscire da tutte le giunte da Firenze in su, e chiedere conferma? Terzo: il caso Noemi. Le incongruenze delle versioni di Berlusconi sono patenti: non dovremmo pretendere di sapere se il premier ha detto la verità o ha dichiarato il falso? Non potremmo chiedere cosa ne pensa di quella torbida vicenda e dell’ennesimo divorzio del premier, chessò, Famiglia Cristiana? Quarto: il caso Mills. Il problema dell’antiberlusconismo travaglista è che a forza di sparare ogni giorno le stesse cartucce, qualsiasi espressione suona oggi trombona, polverosa e già sentita. Però si potrebbero fare diverse cose, quantomeno per insinuarsi nelle crepe e sparigliare. Poi ci sarebbe la questione Fini. E la crisi economica galoppante. E il fioccare di poltrone e poltroncine. Potremmo continuare.

L’impressione che se ne trae è completamente diversa dall’immagine del Pd costretto a competere con una macchina perfetta e un leader imbattibile. Al contrario, la sensazione è quella di un Pd con le armi spuntate, incapace di giocare la propria partita e ribaltare gli equilibri contro un avversario pieno di punti deboli e in grande difficoltà. Berlusconi appare un gigante perché si staglia nel vuoto assoluto: davanti a un partito apatico e rassegnato come questo Pd, qualunque governo avrebbe vita facilissima. Il problema del Pd non sembra essere tanto l’imbattibilità di Berlusconi, quanto il fatto di non avere mai provato sul serio a inventarsi qualcosa per sconfiggerlo.

(per Giornalettismo)