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Calma e gesso

Stuzzicato da più parti, è ora di togliersi ‘sto dente della stretta di mano tra Obama e Chávez. Il presidente americano e quello venezuelano sono probabilmente – per ragioni diametralmente opposte – i politici stranieri di cui si è parlato di più su questo blog, e potete immaginare il corto circuito nell’umore del sottoscritto, a vedere quella foto. Una foto la cui cosa sgradevole non era tanto il fatto che i due si stringessero la mano – non sono sciocco fino a questo punto – bensì il clima caloroso e il sorriso da grande amicizia (a guardare il video della tv venezuelana, l’umore dei due in realtà non era così amichevole). Non dovrebbe scandalizzarci poi il fatto che la tv venezuelana sostenga che Obama abbia salutato Chávez dicendogli «Adiós, mi amigo». Probabilmente non è vero, e comunque il presidente venezuelano aveva già tentato degli approcci imbarazzanti per approfittare della popolarità di Obama in America Latina. Tentativi sempre puntualmente falliti.

Il punto quindi non è tanto la foto con Chávez, bensì la foto con Chávez nel quadro della politica estera della nuova amministrazione e dell’eterno dibattito tra idealismo e realismo. Sento dire due cose, della politica estera di Obama fino a oggi. Una è che Obama non si stia discostando più di tanto dalla politica estera di Bush, vedi la richiesta di aumento delle truppe in Afghanistan, i bombardamenti in Pakistan e in generale quello che Christian Rocca pubblica nella fortunata rubrica That’s right. L’altra è che Obama sia il classico liberal moscio che patisce il senso di colpa della storia e si lascia affascinare dai figli del popolo alla Chávez. Nessuna delle due posizioni è perfettamente vera, ma tocca fare qualche distinguo. La prima posizione è più vera che falsa, e spesso viene accentuata pur di prendere in giro i più insospettabili sinistrorsi folgorati da Obama (se ne parlò anche qui). La seconda posizione è molto più falsa che vera, ed è viziata da un enorme pregiudizio: di fatto, le cose che avvalorano parte della prima tesi sono più che sufficienti per fare apparire ridicola la seconda.

Dovremmo invece essere in grado di discutere laicamente del nocciolo della questione: ferma restando l’adesione e l’appartenenza di Obama agli ideali propri degli Stati Uniti d’America, come giudicare la strategia della nuova amministrazione in politica estera? Diamo per scontato l’ovvio, cioè che Obama non è ammattito e che non è diventato un Turigliatto a stelle e strisce. Diamo per scontata anche la lettura più sensata ed equilibrata delle sue mosse, e cioè che le pacate e condizionate aperture all’Iran, a Cuba e al Venezuela siano volte al tentativo di dare una possibilità a questi paesi di cambiare le loro politiche – con le buone, prima di usare le cattive – e soprattutto al perseguimento di un fine fondamentale, per il cambiamento delle cose in quei paesi. Quale? Incrementare la popolarità del presidente Obama tra quelle popolazioni, demolire i luoghi comuni e i pregiudizi sugli Usa come immagine del male, parlare direttamente alle persone aggirando la propaganda dei leader politici e religiosi. In un certo modo, è come se Obama fosse ancora in campagna elettorale, fuori dagli Stati Uniti: minare il consenso popolare dei governi nemici è il primo passo per indebolirli e rafforzare le loro opposizioni interne. Inoltre, l’utilizzo di queste buone maniere potrebbe aumentare la legittimazione e il consenso del mondo nel momento in cui sarà eventualmente necessario usare le maniere cattive. Dato che Chávez non è diventato improvvisamente filoamericano, tutt’altro, il fatto che voglia a tutti i costi farsi fotografare con Obama ci dice che ci sono buone possibilità che l’esperimento riesca. Funzionerà? Non lo sappiamo. Da qui a definire Obama «appeaser-in-chief», come dice il mio amico Enzo, ne passa un bel po’.