Le sconfitte – quelle sì – si possono prevedere
Lo diciamo subito per evitare che qualcuno possa pensare al solito inutile esercizio del «te l’avevo detto»: chiunque poteva prevedere che sarebbe andata così. Lo sapeva benissimo Veltroni, che si dimise proprio per far saltare una partita di cui ogni mossa era inesorabilmente prevista e prevedibile. Lo sapeva Bersani, che proprio per questo aveva deciso di rimandare la sua effettiva discesa in campo. Lo sapeva lo stesso Franceschini, chiamato a fare il segretario in seguito al fuggi fuggi generale.
Lo sapevano tutti: davanti alla probabile sconfitta del Pd alle europee (ove per sconfitta si intende qualsiasi risultato inferiore a quello delle politiche: non è mai successo che un partito all’opposizione perda consensi alle europee, per giunta in piena crisi economica) e davanti ai prevedibili colpi che quella sconfitta avrebbe dato alla sua leadership, compilare delle buone liste elettorali sarebbe stata un’impresa impossibile. Si potevano percorrere tre strade: candidare i big del partito per ingaggiare la battaglia simbolica con Berlusconi; candidare un po’ di persone delle segreterie regionali e provinciali, magari trenta-quarantenni, magari con una qualche esperienza di studio o lavoro all’estero; candidare le mezze figure che si dichiarano disponibili, i candidati in cerca di rielezione e i personaggi in cerca di ricollocazione. Con dei sondaggi disastrosi e un segretario con la data di scadenza appiccicata addosso, il Pd non aveva scelta.
I nomi grossi – D’Alema, Bersani, Fassino, Finocchiaro, Rutelli, Fioroni – se la sono data a gambe e comunque candidarli non sarebbe stata una grande idea. Le facce nuove non le ha chiamate nessuno e dove ci sono è perché fanno comodo e i territori si sono mobilitati a loro vantaggio. Chi va nelle liste, quindi? Le mezze figure, gli uscenti, i big in cerca di ricollocazione: Bettini, Domenici e lo stesso Cofferati, attorno alla cui candidatura le polemiche non accennano a diminuire. E’ toccato a Filippo Penati, candidato alla rielezione alla presidenza della provincia di Milano, scagliarsi contro l’ipotesi di un Cofferati capolista nel collegio che comprende la Lombardia: candidare l’ex-leader della Cgil renderebbe molto complicato il dialogo con «il ceto medio, i commercianti, i piccoli imprenditori». La soluzione sarebbe la candidatura di Cofferati come capolista della circoscrizione Nord-Est(che comprende la sua Emilia Romagna) e la sua sostituzione con Luciano Violante. Peccato che Violante non sembri oggi interessato a candidarsi e i rapporti di Cofferati col Pd dell’Emilia Romagna non siano esattamente idilliaci, vedi il diverbio delle scorse settimane col segretario regionale Caronna. Un bel casino, ma il problema più allarmante che emerge da situazioni come queste non è il consueto scontro fratricida, bensì l’assoluta debolezza della segreteria nazionale, costretta ad assistere come spettatrice alle faide tra Genova e Bologna, tra Liguria ed Emilia Romagna, tra Cofferati e Penati.
Nel resto dei collegi le cose non vanno meglio. Il posto di capolista nel collegio Centro dovrebbe andare a Goffredo Bettini, ma nei giorni scorsi il vicesegretario del Pd romano e il vicesegretario del Pd del Lazio – entrambi popolari – hanno rassegnato le dimissioni dai loro incarichi in protesta con le dichiarazioni del segretario regionale Morassut che preferirebbe lui a Silvia Costa. Stesso marasma al sud, dove D’Antoni e De Castro fanno a gara a sfilarsi dal ruolo di capolista per paura di essere travolti da Vendola e dall’uscente Gianni Pittella. Anche qui, la segreteria nazionale sembra giocare un ruolo da comprimario. Sia chiaro: non si chiede che le liste siano dettate da Roma ai territori (per quanto la cosa avrebbe degli indiscutibili vantaggi). Si chiede che la voce della segreteria nazionale sia determinante nel dirimere questioni come quelle che stanno accadendo in questi giorni. Non sta succedendo.
Alla base di questa confusione c’è un equivoco: si pensa che per vincere alle elezioni europee sia necessario candidare personaggi che portino con sé molte preferenze. Un equivoco che obbliga a imbarcare i grandi nomi, i signori delle tessere e le soubrette, e penalizza le candidature di bravi semi-sconosciuti. E’ un equivoco. I seggi spettanti a ogni partito non vengono assegnati sulla base delle preferenze raccolte dai candidati bensì sulla base dei voti assegnati al partito, e i risultati delle passate elezioni ci insegnano che appena il 20% degli elettori utilizza le preferenze: la gente vota il partito, non il candidato che li ha trascinati al seggio. Una volta calcolati con metodo proporzionale i seggi spettanti a ogni lista, si procede con la conta delle preferenze per capire chi si aggiudica i seggi. Questo vuol dire che si possono tranquillamente mettere in lista nomi poco noti, decidendo di puntare sul brand del partito, sul progetto e sulla novità delle liste piuttosto che sulla popolarità dei singoli candidati. Altrimenti è un cane che si morde la coda: come liberarsi dei signori delle preferenze se poi si ritiene che siano loro i soli a poter spostare voti?