Prima di andare a dormire
Parlando con amici e colleghi e pensando ai fatti di questi giorni mi sono venute in mente due cose. La prima riguarda le carceri. Immaginate di sentire una fortissima scossa di terremoto a casa vostra, immaginate di vedere i vicini scendere in strada allarmati e sentire i palazzi crollare, immaginate il panico nel trovare la porta di casa inceppata e non riuscire ad aprirla. Il terremoto in carcere è più o meno così. Trovarsi sbarrato dentro una cella superaffollata mentre fuori gli agenti corrono, mentre ogni millimetro del tuo corpo e del tuo cervello ti chiede di scappare e raggiungere un posto sicuro, dove il tetto non possa crollarti addosso da un momento all’altro, dove non essere costretti nel panico dei topi in gabbia: credo ci si possa trovare in poche situazioni più terribili di questa. Ci sono oltre 1700 detenuti in Abruzzo. Anche loro hanno vissuto delle giornate terribili e non li ha menzionati praticamente nessuno, se non per rassicurarci sull’assenza di pericoli di fuga. La seconda cosa riguarda il barcone affondato al largo della Libia appena una settimana fa. Morirono oltre trecento persone, ma potrebbero essere state anche molte di più: la cifra precisa non la sapremo mai. Conosco bene le logiche dell’informazione e capisco che per vicinanza, drammaticità, fatalità e possibilità di immedesimazione, le due tragedie non sono paragonabili e sarebbe sciocco chiedere una copertura mediatica similare. Però continuo a chiedermi come abbiamo potuto parlare così poco di un disastro così grande.
update – La stessa cosa sulle carceri era stata scritta, ieri, da Adriano Sofri sul Foglio