La crisi di rigetto
Qualcuno sostiene che il Pd ha toccato il fondo. Io non credo: si può fare ancora molto peggio di così. Anzi, credo che se analizzassimo con un minimo di raziocinio quello che è successo ieri e l’altroieri alla luce di quello che era accaduto nei mesi scorsi, non si possa non arrivare alla conclusione che – salvo improvvise e oggi totalmente imprevedibili sorprese – ci aspetta nei prossimi mesi uno spettacolo ancora più penoso e deprimente.
Da cosa è cominciato, il disastro? Non dalla spartizione Ds-Dl. Il disastro è cominciato quando accanto a quel malcostume è iniziata la guerra civile degli ex-Ds. Una guerra civile combattuta non con gli strumenti che il nuovo partito metterebbe a loro disposizione – le primarie – bensì con facendo ampio ricorso a quegli strumenti tribali che hanno contraddistinto il fenomeno – inedito per qualsiasi democrazia occidentale – della sopravvivenza di una dirigenza che rimane per vent’anni in testa a un partito nonostante una serie infinita di sconfitte. D’Alema, Veltroni, Bersani, Fassino, Turco… l’elenco lo conoscete. Gli stessi del Pci al 28%, gli stessi del Pds al 21%, gli stessi dei Ds al 16%. Gli stessi di questo Pd che solo in Sardegna ha perso dodici punti dalle politiche (nota bene per i fan delle manette: Di Pietro ne ha guadagnato appena uno) e si appresta a incassare alle europee di giugno una sconfitta le cui proporzioni metterebbero in dubbio la stessa esistenza del Partito Democratico.
Eppure non sembra sia il progetto politico in sé, il problema: basta andare a vedere i numeri dei votanti alle primarie, ogni volta che vengono celebrate. Il problema è una linea politica erratica e ondivaga, una lotta intestina che come un tumore ha corroso ogni forma di dibattito, una classe dirigente incapace di prendere qualsiasi posizione se non tramite interviste melliflue allo scopo di danneggiare i propri avversari interni. Una classe dirigente che tiene la faccia esclusivamente rivolta verso l’interno senza mai voltarsi verso la società e verso quella base del partito – i militanti, non gli elettori delle primarie: i militanti – che iniziano a provare una vera e propria crisi di rigetto: a Forlì le primarie hanno premiato il candidato avversario a quello investito dal partito, nella rossa Firenze un trentaquattrenne cattolico ha stracciato ogni avversario prendendo il quadruplo dei voti di quel Michele Ventura – sessantasei anni, ex-Pci, ex-Pds, ex-Ds – che era il candidato di punta del candidato alla segreteria del partito, quel Pierluigi Bersani – ex-Pci, ex- Pds, ex-Ds – che a cinquantotto anni suonati aspetta ancora che sia D’Alema a dargli il permesso di candidarsi: due anni fa gli disse no, stavolta gli ha detto sì, peraltro con un tempismo da dilettanti della politica – alla faccia della sua proverbiale intelligenza. Che dire della Sardegna, poi, dove un ottimo presidente di regione si è dimesso a seguito dello scontro col suo stesso partito e nonostante un buon risultato personale non sia riuscito a colmare i diciotto punti di vantaggio che separano la sua coalizione dal centrodestra (taccio per carità di patria delle voci insistenti e credibili secondo cui una parte non indifferente dei duri e puri di partito abbia votato per il candidato del centrodestra, pur di punire il ribelle Soru).
In cima a questa valanga di disastri si staglia la leadership di Walter Veltroni, il cui mandato popolare gli avrebbe permesso di rivoluzionare l’assetto del partito e che invece ha clamorosamente tradito il programma del Lingotto, facendo dell’indecisione, dell’impreparazione e della ricerca continua di compromessi su compromessi la cifra della sua leadership. Quando lo spirito corporativo prevale sul coraggio, non si può che finire com’è finito Veltroni: commissariato dopo appena un mese dalle elezioni politiche e di fatto con la data di scadenza appiccicata addosso. Avesse avuto il coraggio di chiamare per nome chi remava contro e picconava di notte quello che lui tentava precipitosamente di costruire il giorno, avesse avuto il coraggio di mettere sul piatto la propria leadership, anche a costo di spaccare il partito, oggi forse conosceremmo una realtà diversa. Invece no.
Abbiamo a che fare con un partito che ha abbandonato ogni istanza di rinnovamento e la cui prevedibile e catastrofica sconfitta alle europee getterà la base in uno sconforto tale da preferire la conservazione e la riscoperta delle vecchie abitudini al marasma totale di questi mesi. Dopo il disastro si aprirà il più classico e vacuo dei dibattiti sul senso dell’esistenza in vita del Pd, ci si trascinerà stancamente a un congresso durante il quale il partito si consegnerà a Pierluigi Bersani, che – con la benedizione di D’Alema e la speranza che gli italiani riescano di nuovo a votarci per semplice sfinimento – farà una cosa tale e quale a quella che erano i Ds. Tre anni dopo, e con un botto di voti in meno. Auguri.