La fabbrica degli scandali
Con la scoperta dell’ennesimo gruppo violento o razzista su Facebook – in questo caso si tratta di un gruppo che incitava addirittura a uccidere Vladimir Luxuria – si è riaperto il dibattito a proposito di quella fucina di atrocità che internet e di tutte le brutte cose che ci si possono trovar dentro. Definire “dibattito” un paio di comunicati strombazzati a proposito dell’ennesimo “allarme internet” è probabilmente eccessivo, eppure il mondo dell’informazione non riesce a venir fuori da questo circolo vizioso, e ogni volta che qualcuno scrive una scemenza su internet ricomincia il circo. Partono i comunicati stampa e gli articoli indignati sull’allarme del momento, poi dopo due giorni tutti si sono dimenticati di tutto e nell’arco di un paio di settimane si ricomincia: l’ultima volta erano i fan della mafia, poi sono arrivati gli antisemiti, stavolta l’oggetto dell’indignazione sono quelli che vogliono uccidere Vladimir Luxuria. Senza voler minimamente dare giustificazione alle cretinaggini violente e razziste che un’infinitesimale minoranza di scriteriati riversa su internet, dovremmo forse interrogarci sull’opportunità di sfuggire al riflesso condizionato dell’allarme, dello scandalo e della demonizzazione della rete.
Internet è protagonista delle vite delle persone da abbastanza tempo da permetterci di discuterne e ragionarne con buon senso, senza pretendere che risponda alle stesse logiche cui rispondono altri mezzi di comunicazione. Gli stessi social network, Facebook su tutti, permettono di fare cose che possiamo giudicare più o meno interessanti o divertenti, secondo i gusti (ritrovare i compagni di classe delle elementari o conoscere altre persone sulla base di un’interesse comune), ma che di certo non fanno del male a nessuno. La grandissima maggioranza delle persone che usano Facebook, infatti, lo fa per tenersi in contatto con gli amici (persone che nella maggior parte dei casi conoscono già, nella vita reale), guardare le foto delle vacanze e cose simili; alcuni provano anche a fare cose più edificanti, promuovendo cause nobili e sollecitando adesioni agli appelli più disparati. Lo stesso Barack Obama, giusto per fare il più comune e abusato degli esempi, ha avuto in internet e in Facebook un formidabile alleato, specie nella fase iniziale della sua campagna, quando era ancora un semi-sconosciuto senatore dell’Illinois.
Internet – e Facebook, come sua diretta emanazione – ha il pregio di dare a chiunque la possibilità di esprimere le sue opinioni e il suo pensiero. Fermo restando quei casi sanzionati dalla legge – come l’istigazione alla violenza o l’apologia di reato – dovremmo ricordarci che in qualsiasi paese civile e democratico la libertà di esprimere il proprio pensiero con qualsiasi mezzo è anche libertà di scrivere cretinaggini. Solo che in nessuno di questi paesi le cretinaggini vengono scambiate per notizie. Ci sono persone – pochissime, se consideriamo il totale degli utenti – che usano internet e Facebook come l’ennesimo posto in cui riversare la loro miseria, spesso addirittura mettendo in calce il loro nome e cognome, cosa che su Facebook fanno praticamente tutti, alla faccia dell’alibi dell’anonimato. Nella maggior parte dei casi si gruppi che raccolgono poche decine di utenti e finiscono per sparire rapidamente, dato che gli stessi gestori di Facebook permettono agli utenti di segnalare gruppi dai contenuti violenti o inopportuni, e questi gruppi vengono solitamente cancellati nel giro di pochi giorni.
Se poi si pensa che lo scriteriato di turno cerchi – e trovi, oggi, grazie alla rete – la visibilità che gli mancava vent’anni fa, quando magari si limitava a scrivere robaccia sui muri, forse bisognerebbe ragionare sull’opportunità di smettere di concederla, questa visibilità. Magari nascerebbe qualche gruppo razzista in meno, se i media smettessero di approfittare di ogni porcheria che trovano in rete per urlare all’allarme internet dipingendolo come la quinta colonna dell’impero del male; di certo smettere di occuparsene ogni due per tre sarebbe cosa buona e giusta. Probabilmente dovremmo iniziare a trattare le scemenze per quello che sono, anche se si trovano su internet: scemenze.