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Difensori della privacy part-time

Oggi i giornali dedicano ampio spazio alla vicenda delle fotografie pubblicate su Facebook dai dipendenti del pronto soccorso di Torino: fotografie più o meno goliardiche che ritraevano loro stessi o gli ignari pazienti. Per quel che riguarda le foto che si scattavano tra loro, penso che ai dipendenti si possa muovere al massimo l’accusa di scarsa professionalità e fannulloneria; penso però che le foto scattate ai pazienti siano un grave abuso, e i commenti derisori abbinati alle foto siano squallidi e di cattivo gusto.

Detto questo, ci sono due cose che non ho capito del modo in cui il quotidiano La Stampa ha dato questa notizia. Non capisco perché prendersela tanto con la pubblicazione di quelle foto in una galleria di Facebook per poi metterle in bella vista sulle proprie pagine nonché sul proprio sito, in una galleria praticamente identica a quella incriminata, usando la sola accortezza dell’oscuramento dei volti dei protagonisti ma dando così alle foto un pubblico enormemente più alto di quello che avrebbero avuto con ogni probabilità su Facebook. E non capisco il tono particolarmente severo del giornalista che ha intervistato l’infermiera colpevole: «Come le è venuto in mente di pubblicare etc?», «Come può non ricordare?», «Lei è anche una brava fotografa», «Dica la verità», e cose così. Un cazziatone che ci potrebbe anche stare, se non fosse pubblicato sullo stesso quotidiano che appena tre anni fa pubblicò gli sms romantici di Anna Falchi a Stefano Ricucci – che non linko, i feticisti del genere possono spulciarsi l’archivio – e tutt’oggi continui imperterrito nella pubblicazione di intercettazioni telefoniche di alcun rilievo penale trafugate dai palazzi di giustizia. Io non l’ho mai capito fino in fondo, il totem della privacy, ma chi lo difende e lo sostiene a spada tratta farebbe bene a ricordarselo sempre, e non solo quando c’è l’occasione di tirar fuori un po’ di pelosa indignazione prendendosela con lo scriteriato di turno.