La rivincita
Proseguiamo nella metafora calcistica: se il primo e il secondo dibattito tra Obama e McCain fossero stati il primo e il secondo tempo di una partita, oggi servirebbero i tempi supplementari. Il primo dibattito fu vinto secondo noi da John McCain, più sicuro e disinvolto del suo avversario, in difficoltà e costretto sulla difensiva. Stanotte Obama si è preso la rivincita.
E’ stata una rivincita particolare. Siamo arrivati a questo dibattito con Obama in volo nei sondaggi e McCain protagonista di una delle più negative campagne elettorali degli ultimi decenni (in questo momento tutti gli spot televisivi pagati dalla campagna di McCain sono contro Obama: tutti); con Obama forte sull’economia e McCain affidabile sulla politica estera. L’esito del dibattito ha parzialmente ribaltato i pronostici, confermando quella caratteristica del candidato democratico ormai nota a chi segue la sua campagna da gennaio: il senatore dell’Illinois dà il meglio quando è in difficoltà.
Per metà del dibattito si è parlato di economia; la restante metà è stata dedicata a sistema sanitario, risorse energetiche e politica estera. Il paradosso è che Obama è andato peggio quando si è parlato di economia, benché la sua ricetta fosse più convincente: in tempi di enormi crisi economiche e perdita di autorevolezza di istituzioni e politici, il populismo di McCain riesce a emozionare di più del pragmatismo e della pacatezza. McCain ha attaccato Obama, a volte dicendo delle cose semplicemente false, e Obama si è innervosito quando le regole del dibattito gli hanno impedito di replicare. Col cambio di topic, però, è cambiata anche la partita: le domande sul sistema sanitario hanno visto Obama riprendersi, per risultare molto convincente nelle domande sull’energia (lì è stato McCain, invece, a perdere le staffe, chiamando Obama «quello lì») e – incredibile! – mettere letteralmente sotto McCain sulla politica estera. Sull’Iraq e sull’Afghanistan, su bin Laden, sul Pakistan, sull’Iran, persino sull’intervento umanitario in scenari che non turbano la sicurezza americana: su tutti questi fronti Barack Obama ha vinto nettamente. John McCain ha fatto l’errore di ripetere le stesse cose dette durante il primo dibattito, il senatore dell’Illinois ha imparato la lezione e gli ha preso le misure, ribattendo colpo su colpo. Anche l’appello finale di Obama è stato migliore di quello di McCain, che alla fine aveva smarrito smalto e prontezza.
C’è un’altra cosa che ha aiutato Obama: il linguaggio del corpo. Abbiamo detto più volte che i dibattiti non servono agli elettori per confrontare i programmi dei candidati, che sono passati ai raggi X sin da gennaio, bensì a sondare la loro freddezza, il loro controllo di sé, la loro prontezza di spirito e la loro sicurezza. Il format del dibattito – con i due sgabelli al centro di un’arena, e i candidati liberi di muoversi come vogliono – ha esaltato il dinamismo di Obama, la sua agilità, la sua freschezza; McCain – zoppicante, incerto, poco elegante – è apparso irrimediabilmente vecchio (e ha peggiorato le cose con la battuta sul trapianto di capelli di cui avrebbe bisogno).
Due chicche comunicative. Obama non ha ripetuto – fuorché una volta – il ritornello «John is absolutely right»; quando si trovava d’accordo su qualcosa con McCain lo ha detto chiaramente, ma utilizzando formule e toni meno subalterni. McCain ha abusato dell’intercalare «my friends», che unito al trapianto di capelli, la goffagine, il tono paternalista e i 72 anni, non lo ha di certo aiutato.
A questo punto della corsa, a McCain sarebbe servita una grande vittoria per rimettere in gioco il risultato. E’ arrivata una sconfitta, e questo rende il cammino dei repubblicani ancora più impervio. C’è ancora un mese, però, e di cose ne possono succedere. Benché il vantaggio di Obama sembri difficilmente colmabile, il risultato di questa elezione mantiene un tasso di imprevedibilità altissimo, per cui mettiamo in cascina questa vittoria e guardiamo avanti, verso questi benedetti tempi supplementari. Senza golden gol.