Elogio dell’arroganza
Non sono il migliore del mondo, ma penso che nessuno sia meglio di me.
Ultimamente qui ci si è presi una cotta per the special one, ovvero Josè Mourinho. Non perché le sue battute e le sue uscite siano geniali – non lo sono, tranne alcune – bensì per la puntualità scientifica e la nonchalance con cui non perde occasione per distruggere la melassa delle conferenze stampa e delle interviste sportive in Italia.
Si tratta anche (ma non solo) dell’introduzione di posizioni completamente nuove e mai sentite proncunciare da nessun allenatore con questa sicurezza – “Voi italiani pensate di più agli spettacoli post partita piuttosto che il calcio italiano sia uno prodotto spettacolare. Nessuno pare preoccuparsi che il campionato italiano viene considerato piccolo fuori dall’Italia, un prodotto non paragonabile a Liga o Premiership. Non vi preoccupate che il Lecce ha giocato con tre “portieri” e otto difensori, la cosa che ha preoccupato tutti è che Beppe Baresi è venuto in conferenza stampa al posto mio” – ma spesso è semplicemente una questione di vocabolario.
Quanto sarebbe bello intervistare il calciatore autore del gol che ha deciso la partita sicuri che non dirà la fatidica frase: “Sono contento per il gol ma soprattutto sono contento per la vittoria della squadra”? Che soddisfazione sarebbe chiedere a un allenatore un parere sui prossimi avversari senza sentirsi dire l’immancabile “Noi rispettiamo tutti ma non abbiamo paura di nessuno”?
José Mourinho pensa, e parla. Non che abbia grandi intuizioni, ma il solo fatto che se ne infischi del politicamente corretto lo rende ai miei occhi divertente e meritevole di stima (è anche un ottimo allenatore, nel frattempo). Se il suo essere un’imprevedibile mina vagante delle sale stampa lo rende ammirato da tifosi e commentatori – escluso qualche rosicone – non si può dire che sia lo stesso per gli eserciti di Enrico Varriale e Francesca Sanipoli (brr) abituati a recitare il solito copione a Stadio Sprint (ri-brr). Non è un caso, infatti, che la sua divertita arroganza e la sua giustificata immodestia – un giorno torneremo su quell’esaltazione dell’ipocrisia chiamata modestia – stiano infastidendo ai limiti della bava alla bocca i personaggi più mediocri del calcio italiano e dell’universo giornalistico che gli ruota attorno.
Prima di José Mourinho, il rapporto tra calcio e giornalismo in Italia era quella cosa per cui alle domande pelose sugli stipendi troppo alti si rispondeva quasi chinando il capo cose tipo “Il calcio è da moralizzare” o “E’ un sistema sballato, eccetera”. José Mourinho invece corregge il giornalista travaglino:
“Non guadagno nove milioni, bensì undici. E con gli sponsor arrivo a quattordici”
Prima di José Mourinho, nessun giornalista si sarebbe posto alcun problema nel rimestare una polemica figlia di una sconfitta in una competizione alla vigilia di una partita in un’altra competizione, cercando di spillare una dichiarazione utile a finire in prima pagina. José Mourinho invece si volta, osserva sul pannello dietro di lui le stelle della Champions League, si volta nuovamente verso il giornalista:
“Ma dobbiamo giocare una partita di campionato?”.
Aspetta che qualcuno con la testa gli faccia no, e poi risponde
“Allora di campionato parliamo venerdì”
Prima di José Mourinho, arrivati alla corte di un presidente facoltoso, tutti gli allenatori avrebbero parlato della “fortuna di avere una società che può arrivare a grandi obiettivi” e che “i soldi è importante averli ma anche saperli spendere”, eccetera. José Mourinho dice:
“Se avessi voluto un lavoro facile sarei rimasto al Porto, con una bellissima sedia blu, una Champions in bacheca, Dio e dopo Dio il sottoscritto”.
Ogni settimana, le conferenze stampa di Mourinho sono uno spettacolo di irriverenza e smascheramento di tutti i vizî e le pigrizie di un certo giornalismo sportivo italiano. Avercene, di José Mourinho.