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Habemus Barack

wedidit.jpgDopo sei mesi, cinquantasette sfide e ventitrè dibattiti, finalmente le primarie democratiche hanno un vincitore: il senatore dell’Illinois Barack Obama. Il candidato afroamericano ha raggiunto ieri sera il quorum dei delegati necessario a mettere al sicuro la nomination, diventando così il primo afroamericano a vincere una nomination presidenziale negli Stati Uniti d’America. A chiudere il circo delle primarie democratiche è stato il voto in Montana e in South Dakota. In Montana la vittoria è andata a Barack Obama con il 56% dei voti (Hillary 42%), mentre Hillary si è accaparrata il South Dakota con il 55% dei voti (Obama 45%). Alla luce però di quanto accaduto durante la giornata di ieri, il peso dell’ultimo voto sul risultato finale è stato pressoché nullo.

BARACK – Dopo la decisione della commissione elettorale dei democratici sui risultati di Michigan e Florida, a Barack Obama mancavano una quarantina di voti – tra delegati e superdelegati – per mettere al sicuro la nomination. Sapeva che i delegati che sarebbero arrivati da Montana e South Dakota non sarebbero bastati e – pur di evitare l’incubo di una convention bloccata – ha tentato in tutti i modi di rompere il muro dei superdelegati uncommitted. La strategia ha funzionato. Se nei giorni precedenti a ieri i superdelegati sostenevano Obama al ritmo di tre o quattro al giorno, ieri abbiamo assistito a un vero e proprio fiume di sostenitori: gli apripista di questa tendenza sono stati il pezzo grosso dei democratici al Congresso James Clyburn e l’ex-presidente Jimmy Carter. Il risultato è stato quanto di meglio Barack Obama potesse desiderare: il quorum dei 2118 delegati è stato superato prima ancora che venissero assegnati i delegati di Montana e South Dakota, che oggi lo rendono ancora più irraggiungibile a quota 2136. Parlando ai suoi sostenitori in Minnesota, Obama si è proclamato vincitore con un discorso concentrato principalmente su due aspetti: coccolare Hillary e i suoi elettori, che ancora non sembrano così decisi a supportarlo in vista di novembre; bastonare John McCain, dando così all’opinione pubblica un anticipo della dialettica che coinvolgerà i due candidati sui temi chiave di questa campagna elettorale – la crisi economica, la copertura sanitaria, il rientro dall’Iraq.

HILLARY – Dal canto suo, Hillary ha fatto tutto meno che arrendersi: chi si aspettava una resa o un’incoronazione del nominee è rimasto a bocca asciutta. Nel discorso tenuto a New York, l’ex first lady – pur ringraziando Obama per il contributo dato a questa campagna e congratulandosi con lui per il grande lavoro – non ha mai parlato della nomination, non ha riconosciuto la sconfitta (quale sconfitta?) e, anzi, ha continuato con il mantra di questi mesi: lei è il candidato più forte, lei è la migliore possibilità di vittoria in novembre per i democratici. L’unica concessione al realismo arriva quando Hillary sostiene che non prenderà nessuna decisione e che si limiterà a ragionare sul da farsi con il suo staff e i leader del suo partito. Perché dovrebbe? Altro che disponibilità per la vicepresidenza: alcuni retroscenisti americani sostengono che Mark Penn avrebbe consigliato a Hillary di sospendere la sua campagna ma non ritirarsi, in modo da farsi trovare pronta nel caso da qui alla convention venissero fuori degli scandali su Barack Obama nello stile del caso Jeremiah Wright. Nel frattempo, però, gli elettori di Hillary continuano a non digerire granchè il senatore dell’Illinois e ieri, durante il discorso dell’ex first lady, qualche temerario si è addirittura messo a urlare: yes, she can. Qualcuno dovrebbe spiegar loro che hanno perso.

JOHN – Nel frattempo John McCain, che è presumptive nominee dei repubblicani ormai dal supertuesday, quindi da quasi quattro mesi, concentra ormai tutti i suoi sforzi su Barack Obama. Ad oggi, non ci sembra che il senatore dell’Arizona abbia trovato una qualche idea originale per mettere in difficoltà Barack Obama. Il massimo a cui abbiamo assistito durante il discorso di ieri è stato un attacco sul tema tutto obamiano del cambiamento – «Non importa chi vincerà queste elezioni, la direzione del nostro paese cambierà comunque in maniera repentina. Ma la scelta è tra il cambiamento giusto e il cambiamento sbagliato, tra andare avanti e andare indietro» – e la solita trita e ritrita tiritera sull’esperienza: «Sapete, rispetto al mio avversario ho qualche anno in più, perciò sono sorpreso di vedere che un uomo così giovane abbia così tante idee perdenti». Fossimo in John McCain, cercheremmo di inventarci qualcosa di più efficace: qualcun altro ha già giocato queste carte contro Obama, e non gli è andata per niente bene.

(per Giornalettismo)