La vittoria al rallentatore
Immaginate che si giochi la semifinale di una importante competizione calcistica. La partita è stata vivace e interessante, a tratti persino dura, con ribaltamenti di fronte, colpi di scena e giocate da fuoriclasse da una parte e dall’altra. Al novantesimo una delle due squadre conduce meritatamente e la sua superiorità è tale che guarda già alla finale, ma l’arbitro decide di prolungare oltre ogni consuetudine il recupero di fine partita. Cinque, otto, dieci, quindici minuti: tutti sanno che la partita è chiusa, i vincitori hanno già la testa alla finale e temono di stancarsi inutilmente, gli sconfitti cercano di mettere a segno il gol della bandiera, tutti aspettano solo il triplice fischio e sanno che il risultato non cambierà. Una vittoria al rallentatore. E’ quello che sta succedendo a Barack Obama.
WHAT HAPPENS – I risultati del voto in Kentucky e Oregon sono quelli ampiamente previsti alla vigilia: larga vittoria di Hillary in Kentucky e quasi altrettanto larga vittoria di Obama in Oregon, per una spartizione dei delegati che vede Hillary in vantaggio 51 a 35. Ad ogni modo il risultato più visibile delle primarie di ieri è uno soltanto: Barack Obama ha la maggioranza matematica dei delegati eletti. Avendo in tasca anche la maggioranza dei superdelegati – che continuerà a incrementarsi di ora in ora – e un solido vantaggio nel voto popolare, le speranze per Hillary Clinton praticamente non esistono più.
O HILLARY O MUERTE – Tra gli altri particolari interessanti che rivela l’analisi del voto in Kentucky e Oregon, spicca la mancata incisività dell’endorsement di John Edwards per Barack Obama. Alla vigilia la stessa Hillary aveva confessato che l’appoggio del senatore della South Carolina avrebbe dato una marcia in più a Obama sul fronte della working class bianca, specie in Kentucky, stato la cui composizione sociale è molto simile a quella del West Virginia, in cui Edwards – già ampiamente ritirato – aveva comunque ricevuto una buona manciata di consensi. Non è stato così. Obama non ha deluso invece nelle contee di Louisville e Lexington, le più grandi e moderne, che sono state il vero campo di battaglia tra lui e Hillary: le ha portate a casa entrambe, di un soffio. Stesso risultato nella Marion County, in Oregon, una contea in cui nelle ultime due primarie senza un presidente uscente in ballo si sono avuti dei risultati speculari a quelli dell’intero stato. Il dato più allarmante però viene dagli exit poll in Kentucky: i due terzi dei sostenitori di Hillary hanno dichiarato che sono pronti a votare McCain o non votare affatto se il nominee sarà Obama. Per la pressione che dati come questi mettono sulla leadership del partito e sui superdelegati, anche questa è una buona notizia per il senatore dell’Illinois. Ma solo fino ad agosto.
A CALDO – E dire che i discorsi dei due candidati oggi sono stati molto meno astiosi di un po’ tempo. Obama ha parlato in Iowa, dove la corsa delle primarie ha avuto inizio: ha rinunciato alla proclamazione da vincitore – “Siamo tornati in Iowa con una maggioranza nei delegati eletti dai cittadini americani, e ora abbiamo a portata di mano la nomination democratica per il presidente degli Usa” – ha citato Hillary una volta sola e per di più trattandola da perdente illustre – “La sen. Clinton ha infranto dei miti e abbattuto delle barriere che hanno cambiato l’America in un modo che le mie figlie e le vostre figlie vedranno col passare degli anni” – e si è scagliato contro McCain, approfittando di trovarsi in uno di quegli swing states che decidono le presidenziali: “Le primarie repubblicane di quest’anno erano una gara per vedere quale candidato avrebbe potuto essere il nuovo Bush, e quella è la gara che ha vinto John McCain“. Obama ha poi rincarato la dose nell’email inviata ai suoi sostenitori: “Questo viaggio non riguarda me o gli altri candidati. Riguarda una scelta semplice – vorremo continuare giù per la stessa strada con gli stessi leader che ha conseguito fallimenti per così tanto tempo, o vorremo provare qualcosa di diverso?”. Hillary non ha cambiato linea strategica, neppure ora che i sondaggi nazionali la danno oltre dieci punti sotto Obama: “Dopo tutto quello che questo paese ha passato negli ultimi sette anni, dobbiamo fare le cose bene. Dobbiamo scegliere un candidato che sia il meglio posizionato per vincere a novembre”. Possibilità di ritiro? Macché: “Andrò avanti finché non avremo un candidato: non penso ne avremo uno oggi, non penso ne avremo uno domani, non penso ne avremo uno dopodomani”. A meno di una cascata di endorsement dei superdelegati uncommitted, dovremo quindi aspettare i risultati delle ultime tre partite.
NIENTE SUPPLEMENTARI – Porto Rico l’1 giugno, Montana e South Dakota il 3. Scenari che avranno un barlume di senso solo se il 31 maggio la commissione del Comitato Nazionale Democratico deciderà di tenere in qualche modo in considerazione i voti di Michigan e Florida, dando un po’ di ossigeno a Hillary. Altrimenti, saranno altri minuti passati a far melina in attesa del fischio dell’arbitro, mentre la testa di tutti è già rivolta alla finale.