Questo sito contribuisce alla audience di IlPost

Il grande salto

untitled-truecolor-01.jpgUno dei motivi per cui abbiamo sostenuto Walter Veltroni alle primarie del 14 ottobre era il suo obiettivo di fare dell’Italia un paese normale – quindi un paese in cui la flessibilità sia una cosa positiva e non un dramma, in cui la criminalità organizzata non sia qualcosa con cui convivere, in cui in politica estera si stia dalla parte delle democrazie e non dalla parte delle dittature, eccetera – e di farlo tramite un partito normale, un partito che sceglie gli alleati sulla base del programma e non viceversa, che tenta di farsi potenziale portavoce delle istanze di tutti i cittadini e non solo di una determinata categoria, che ha un leader eletto democraticamente che rende periodicamente conto alla sua base dei risultati raggiunti dal partito.

LUCKY STRIKE

Nei partiti normali ci sono alcune regole non scritte. Una di quelle che ci piace di più è che la diversità di opinioni è una ricchezza e quando la diversità di opinioni richiede chiarimenti e riflessioni si ricorre ai congressi e non alle scissioni. Un’altra di quelle che più apprezziamo è quella secondo cui nessun leader – nemmeno il più bravo e di successo; nemmeno Tony Blair, per dire – ha un mandato illimitato. La politica è una cosa del mondo, e sappiamo che nel mondo le relazioni causa-effetto non sono così precise così come gli uomini pensano che siano; sappiamo che le cose che accadono sono spesso frutto di eventi imponderabili e imprevedibili e sappiamo che al triplice fischio si è tutti molto bravi a giudicare quanto giusta o sbagliata fosse la formazione di partenza. Sappiamo questo, e sappiamo però che sono gli uomini – la cosiddetta classe dirigente – i responsabili in ultima istanza dei risultati elettorali di un partito. Anche qualora non fosse colpa loro, anche se il destino cinico e baro si fosse messo di mezzo: l’esercito di Napoleone poteva fare a meno dei generali bravi, se aveva quelli fortunati; noi siamo condannati a esigere politici bravi, capaci e fortunati.

ABBIAMO PERSO, COMPAGNI, DI NUOVO
La sconfitta alle elezioni di Roma rende enormemente più negativo il bilancio di questa tornata elettorale. Alla vigilia il peggiore tra i risultati accettabili sarebbe stato una sconfitta dignitosa alle politiche e una forte riconferma a Roma: non sono arrivati né l’uno né l’altro. A un primo sguardo entrambi i risultati sembrano rientrare nella logica dell’alternanza: il centrosinistra ha vinto le ultime politiche e ha governato la Capitale per quindici anni. Oggi entrambi gli scenari cambiano bandiera – succede così nei paesi normali, no? Forse. Forse, perché basta fare un passo indietro per vedere come le ultime sconfitte si pongono in totale continuità coi risultati del centrosinistra degli ultimi dieci anni.

Il 2001 si porta in dote la rovinosa sconfitta del ticket Rutelli-Fassino, dopo quattro governi in cinque anni. Il 2004 è l’anno della lista unitaria alle europee che si ferma al 31% – nonostante il vento favorevole dovuto ai disastri del governo Berlusconi – e che elegge dei parlamentari europei che si sparpagliano nei gruppi parlamentari più disparati, mentre si continua a frenare sul fronte l’unico futuro possibile, il partito dei unitario dei riformisti. Il 2005 è l’anno in cui si decide di candidare alla Presidenza del Consiglio lo stesso candidato di dieci anni prima, e si organizzano delle primarie per dare una legittimazione popolare a quella discutibile scelta. Il 2006 è l’anno in cui si continua a vivacchiare rimandando la nascita del Partito Democratico, si decide addirittura di correre separatamente al Senato e si riesce nell’impresa incredibile di perdere le elezioni dopo cinque anni di governo Berlusconi – poi sono arrivati gli onorevoli eletti all’estero e per ventiquattromila voti ci siamo salvati. Ne è seguito quel governo Prodi in cui la teorizzazione dell’Ulivo degli anni Novanta (tutti insieme dai centristi ai comunisti) è implosa in una costante e del tutto bipartisan smania di visibilità, in un nugolo di personaggi ambigui con un piede in piazza e uno in Consiglio dei Ministri, in una impopolarità così vasta e disarmante da assecondare un sentimento di insofferenza e delusione verso la politica che non si riscontrava dai tempi di Tangentopoli. Si è fatto il Partito Democratico, si sono fatte le primarie per eleggere un leader e si è preferito evitare la reale competizione tra le idee: ci si è candidati così tutti a supporto di un leader che ha iniziato a essere discusso un minuto dopo la sua elezione (non è che la verifica sulla linea di Veltroni che oggi chiedono a gran voce pezzi autorevoli del Pd sarebbe dovuta avvenire prima, quando si sarebbero dovuti contare i voti attorno a una determinata idea di partito? Si è preferito andare tutti dietro il candidato più forte: se vince, evviva; se perde, verifica. Nei paesi che piacciono a noi, non funziona esattamente così). Siamo andati a votare alle politiche riportando una sconfitta che poteva di certo essere peggiore ma della quale non vanno minimizzate le enorme proporzioni; abbiamo perso Roma, proponendo lo stesso candidato di quindici anni prima, che ora qualcuno vorrebbe addirittura riproporre come vicepresidente del Senato della Repubblica.

GAME OVER
Non vogliamo dire che sono stati soltanto dieci anni di sconfitte. Abbiamo fatto il Partito Democratico. Governiamo quindici regioni su venti – ora quattordici, vedi alla voce Illy. Allo stesso modo, non vogliamo dire che la classe dirigente che ha guidato il centrosinistra negli ultimi dieci anni abbia solo collezionato disastri e non abbia meriti e intelligenze. Francesco Rutelli è stato un fantastico sindaco di Roma e ha dato vita a un partito liberaldemocratico strategicamente fondamentale, che ha messo fine al proliferare dei partitini alla destra dei Ds; Massimo D’Alema è stato buon primo ministro dieci anni fa e buon ministro degli esteri; Piero Fassino è competente come pochi, e porta sulle sue spalle buona parte dei meriti per la nascita del Partito Democratico; cose più o meno simili potremmo dire di Barbara Pollastrini, di Franco Marini, di Rosy Bindi, di Giuseppe Fioroni, di Paolo Gentiloni, di Livia Turco, di Giovanna Melandri, di Arturo Parisi. Di Walter Veltroni abbiamo detto: ha fatto il massimo di quel che poteva fare, e non è bastato. Alcuni sono stati bravi, altri un po’ meno; ad alcuni ci siamo affezionati, altri ci stanno un po’ antipatici: il punto è che perdono tutti da dieci anni di fila, e non si riesce a cambiare registro.

UN GIORNO TUTTO QUESTO SARA’ TUO
Oggi si parla di verifiche, di congressi anticipati, di resa dei conti. Ben venga in un partito la discussione libera e democratica sulle responsabilità delle sconfitte e ben venga – qualora dovesse arrivare – una pubblica assunzione di responsabilità dell’attuale classe dirigente del Partito Democratico, da Walter Veltroni in giù.
Vorremmo che il Partito Democratico proseguisse nel suo essere un partito normale: un partito in cui, quando si perde, la classe dirigente prende atto della sconfitta, vi ragiona sopra e sulla base degli errori commessi inizia a pianificare il futuro, consapevole che non ne sarà parte. Non siamo impiccati all’idea che Veltroni si debba dimettere e non andiamo matti per i “tutti a casa” urlati con la bava alla bocca. Crediamo però sia necessario mettersi in cammino verso il futuro, e a tale scopo non abbiamo bisogno di nessun settantenne che ci spieghi come fare le cose, né tantomeno di nessun “rieccolo”. La prima repubblica dovrebbe avere insegnato ai maggiorenti del Pd che nei momenti complicati, quando serve uno shock di innovazione che sblocchi alcuni meccanismi, bisogna avere coraggio e saltare una generazione: prendere una ventina di trenta-quarantenni in gamba e metterli nei ruoli chiave del partito, preparare il terreno perché nel 2011 possano essere loro a candidarsi alla guida del paese. Il materiale umano non manca: Gianni Cuperlo, Federica Mogherini, Enrico Letta, Marta Meo, Ivan Scalfarotto, Alessia Mosca, Marco Simoni, Simona Milio, Stefano Ceccanti, Maurizio Martina, Giuseppe Civati, Matteo Renzi, Roberto Morassut – e potremmo continuare ancora. Non abbiamo bisogno di star qui a elencare all’attuale classe dirigente del Pd tutti i vantaggi del saltare una generazione e mettere il partito nelle mani di questi e altri ragazzi. Lo sanno bene: è quello che fece Berlinguer negli anni Settanta con molti di loro.